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  1. Le ultime ore di Giulio Cesare

    Il 15 marzo del 44 avanti Cristo può, a ben ragione, essere considerato un giorno epocale.

    Giulio Cesare - Fori Imperiali

    Giulio Cesare – Fori Imperiali

    Quel giorno infatti non solo segnò la fine di Cesare, ma di un’epoca: quella della Repubblica. Il destino di Roma si gioca in un solo giorno, quello che vide morire Cesare sotto i fendenti di 23 congiurati, sognatori di quella libertà che ormai era solo utopia.
    Nel corso della visita seguiremo il percorso che Cesare fece dalla sua casa: al foro nella casa del pontefice massimo – carica che aveva avocato a sè sommandola a quella di dittatore a vita – passando per il foro (foro di Cesare) – fino ad arrivare alla Curia di Pompeo a Largo Argentina).
    Poche ore, dalle 10 alle 12, che cambiarono per sempre il volto di Roma.  Il nostro sarà il racconto di un cold case, un delitto di cui ripercorriamo le orme, aiutandoci con le fonti antiche quali quelle di Svetonio, Plutarco, Cassio Dione, che hanno dedicato tante pagine al personaggio più popolare, più amato e odiato della storia di Roma (amato dal popolo, osteggiato dal senato). Parleranno i protagonisti: Marco Antonio, Decimo Bruto, Calpurnia la moglie di Cesare, il senatore pentito che tenta invano di avvisare Cesare. Ognuno con una versione dei fatti da raccontare.
    Il Foro di Cesare fu messo in luce nel 1932 durante i lavori d’isolamento del Campidoglio e di demolizione delle case di via Marforio.

    Foro di Cesare - ricostruzione virtuale durante lo spettacolo:

    Foro di Cesare – ricostruzione virtuale durante lo spettacolo:

    Il Foro di Cesare rappresentò il primo ampliamento dell’antico centro di Roma, ovvero il Foro Romano, ormai insufficiente alla nuova situazione demografica, politica e amministrativa. Cesare cominciò i lavori nel 51 a.C., dopo la conquista delle Gallie, che gli aveva fornito i mezzi finanziari occorrenti all’impresa. La piazza, delle dimensioni di circa 160 metri per 75, fu caratterizzata da una zona addossata al Colle Capitolino tutta a botteghe a due piani divisi da un soppalco. Ad un piano superiore, lungo il colle, passava il Clivus argentarius, anch’esso rimesso in luce, che era fiancheggiato da botteghe aperte al pianterreno, di insulae di abitazione. All’epoca di Traiano, nell’area del Foro fu ricavato un portico detto Basilica argentaria di cui si conservano pilastri e strutture. Le colonne piuttosto esili, che pure si vedono, appartengono invece ad un portichetto costruito nel basso impero. Sul lato breve del Foro, verso nord, Cesare collocò il Tempio di Venere Genitrice, divinità familiare della Gens Julia: ne aveva fatto voto prima della battaglia di Farsalo (48 a.C.). Vi mise la statua della dea, opera di Archesilao; nel portico del tempio era esposta una collezione di quadri. Il tempio fu ricostruito all’epoca di Traiano e di quel periodo sono gli avanzi attuali, fra i quali le tre colonne rialzate, salvatesi perchè nascoste dalle costruzioni medievali. Nel centro del Foro di levava maestosa una statua equestre di Cesare in bronzo dorato.

    Area sacra di Largo Argentina. Piantina. In 3 indicato il luogo dove fu ucciso Cesare.

    Area sacra di Largo Argentina. Piantina. In 3 indicato il luogo dove fu ucciso Cesare.

     L’area Sacra dell’Argentina fu scoperta tra il 1926 e nel 1939 nel corso di lavori edilizi. Così come il largo attiguo, l’area prende il nome dalla Torre Argentina della vicina Casa del Burcardo, il cinquecentesco cerimoniere pontificio originario di Argentoratum, l’attuale Strasburgo.

    Quest’area, uniformemente pavimentata e con una precisa delimitazione perimetrale, costituisce una specie di piazza di Roma antica, con una netta destinazione di culto. Essa sorse in epoca repubblicana, a cominciare dal sec. IV. E se in epoca repubblicana rimaneva una zona abbastanza isolata, in epoca imperiale venne a trovarsi al centro di una straordinaria concentrazione di monumenti, anche per l’infittirsi di costruzioni a carattere pubblico e celebrativo in Campo Marzio.

    Area sacra di Largo Argentina - In primo piano il luogo dove venne ucciso Cesare.

    Area sacra di Largo Argentina – In primo piano il luogo dove venne ucciso Cesare.

    Il Tempio di Pompeo, intanto. I cui portici arrivavano fino all’attuale Teatro Argentina: sulla sinistra, dietro ai Templi definiti D e C si levava la Curia di Pompeo, dove venne ucciso Giulio Cesare. A nord, c’erano le Terme di Agrippa che arrivavano fino alla zona del Pantheon. Seguiva il Diribitorium. Invece, a seguito di saggi archeologici realizzati nel rinnovamento dei palazzi, sembra si possa collocare al di là dell’attuale via di San Nicola dei Cesarini il Portico Minucio di più antica costruzione; esso, all’epoca dell’imperatore Claudio, venne detto “frumentario” perché vi si facevano le distribuzioni gratuite di grano.

  2. Il Centenario: Alberto Sordi 1920-2020. La mostra a Villa Sordi

    Per celebrare i cento anni dalla nascita di Alberto Sordi, che si

    Alberto Sordi.

    festeggeranno il 15 giugno 2020, la villa di Roma in cui dimorò, situata in piazzale Numa Pompilio, ospita una mostra a lui dedicatagli aperta dal 7 marzo al 29 giugno 2020.
    Intitolata Il Centenario – Alberto Sordi 1920-2020, la mostra è curata da Alessandro Nicosia, insieme con i giornalisti Gloria Satta e Vincenzo Mollica. Tra documenti inediti, fotografie, filmati e cimeli di vario tipo, l’esposizione porterà il visitatore a esplorare la casa e a conoscere meglio la vita e la carriera di “Albertone”. La villa, aperta al pubblico per la prima volta, fu progettata negli anni trenta dall’architetto Clemente Busiri Vici. Sordi la vide per la prima volta nel 1954, rimanendone così affascinato da comprarla poche ore dopo averla visitata.
    Una grande mostra per conoscere ancora meglio Alberto Sordi, che conosciamo tutti per la sua produzione, ma poco per quello che in effetti era. In mostra c’è una sezione nella quale è stato inserito del materiale

    La casa – museo di Alberto Sordi.

    ritrovato davvero incredibile. I curatori hanno cercato di rispettare gli ambienti che sono rimasti intatti dopo la morte, così come lui li aveva voluti e vissuti. Questa mostra permette di scoprire un Sordi che va oltre i successi e la fama e di conoscere storie che circolavano a proposito del suo privato. Il progetto si compone di due racconti che si sviluppano in parallelo: il Sordi pubblico e il Sordi privato. Nel percorso la vita pubblica e quella privata dell’attore si intrecciano generando non poche sorprese, dando vita a una narrazione vivace e avvincente conducendo il visitatore alla scoperta di alcuni tratti inconsueti e poco conosciuti della personalità dell’artista. Villa Sordi è un vero teatro: una sala da barbiere, un’austera camera da letto. E poi Crocifissi e Madonne, quadri del ‘600 e ‘700, un De Chirico unica

    Alberto Sordi.

    concessione alla modernità, quasi neppure la foto di un’attrice. Insomma, fortezza inviolabile, guardata dai romani con curiosità e rispetto. Pochi i privilegiati cui l’attore, scomparso diciassette anni fa, dischiudeva il cancello del suo mondo segreto. La sua collaboratrice Paola Comin racconta che dovette aspettare un paio d’anni prima che Sordi, anziché farla attendere davanti al cancello per recarsi insieme agli appuntamenti di lavoro, la invitasse su per un caffettino. La casa di Sordi ha vissuto due vite, ha raccontato spesso l’attore Carlo Verdone: “Prima del ’72 era frequentata. Sergio Amidei, Sonego, Piero Piccioni, Fellini, la Masina, Monica Vitti, Franca Valeri: c’erano cene, incontri, proiezioni, sono stati invitati tutti i sindaci di Roma, tanti cardinali. Anche Walter Matthau e Jack Lemmon ci sono stati. Ma in quell’anno morì Savina, la sorella più grande, e da allora fine delle serate. La casa per Alberto diventò una rocca in cui rinchiudersi e isolarsi. Del resto, come tutti

    La casa di Alberto Sordi.

    i grandi comici aveva un suo lato malinconico, e capisco anche il bisogno di silenzio per uno che per lavoro passa il tempo in mezzo alle cagnare. Io la sua casa la conoscevo solo in parte, il documentario è stata un’occasione per scoperte continue. Il teatro, per esempio, non sapevo nemmeno che ci fosse: una grande platea, un palco, la buca per il suggeritore, poltrone, luci, due proiettori. Ho scoperto la barberia: grande specchio, luci, poltrona da barbiere. E poi il roseto, la cucina immensa come quella di un hotel. La stanza in cui passava più tempo era lo studio. C’è la poltrona su cui, dopo la pennichella, leggeva i copioni. Mi ha raccontato Arturo, l’autista, che si precipitava nello studio ogni volta che sentiva un botto. Erano i copioni che Alberto buttava a terra: ‘Prendili, daje foco’, gli diceva. Serrande sempre abbassate e rigore: quella casa è il segno di quanto Sordi privato fosse diverso dall’immagine pubblica. Anche se, mi ha raccontato Pierina, la vecchia governante, la penombra era dovuta ai consigli dell’antiquario Apolloni, suo amico e insegnante d’arte. Gli aveva venduto molti degli arredi e dei quadri e diceva che per conservarli bene dovevano avere poca luce. Grandi quadri del Seicento e del Settecento, l’unico moderno è un De Chirico. Neppure una foto con le attrici, una sola di Soraya, con dedica. E poi immagini religiose, Giovanni Paolo II, crocifissi e tante Madonne. In giardino ce n’è una in una nicchia. Ogni mattina le portava una rosa, recitava una preghiera, poi andava a lavorare. La stanza da letto è la più spartana: il letto, una vecchia radio, niente televisore”.

    Roma, 7 marzo 2020

  3. Basilica di Santa Maria in Trastevere

    Piazza Santa Maria in Trastevere. Si ringrazia “Roma Ieri e Oggi”.

    Piazza Santa Maria in Trastevere è stato l’unico vero centro dell’antico Trastevere e ne è anche oggi il punto più suggestivo, dominato dalla basilica, dall’armonioso, attiguo palazzo seicentesco e da edifici che accompagnano con equilibrio gli aspetti monumentali. Al centro è la fontana che sembra ricordare l’antico càntaro dell’atrio che doveva precedere la basilica e che è stata costruita con vasca ottagonale da Carlo Fontana nel 1692.
    La storia della fontana è però assai antica. La tradizione vuole infatti che sia stata la prima fontana di Roma costruita per volere di Augusto nel I secolo avanti Cristo, alimentata dall’acqua Alsenita e spostata in questa piazza, ma posizionata all’estremità opposta rispetto alla chiesa, da Nicolò V per il Giubileo del 1450.
    Come tutte le fontane romane però anche questa subiva una continua usura e quindi fu più e più volte rifatta. Nel 1498 da Bramante per volere del

    Piazza Santa Maria in Trastevere nella pianta di Roma di Pietro Il Massaio del 1571

    cardinale spagnolo Giovanni Lopez che fu ordinato da Alessandro VI, che facendo dell’ironia sul proprio cognome fece apporre sulla fontana un’iscrizione in latino, che in italiano recita così: “Se l’acqua che cade col blando mormorio ti concilia il sonno e forma tremuli laghetti; se bevi limpidi sorsi e ti lavi, devi ringraziare il Lupo che ha rifatto la fonte. Considerando quindi il suo interessamento, o Romolo, dimmi la verità: questo Lupo ti è forse meno padre di quanto non ti fu madre la lupa?“.
    Nel 1591 fu la volta di una nuova trasformazione: la fontana venne alimentata dall’acquedotto Felice e quindi divenne una vera e propria fontana pubblica, con acqua che era buona per abbeverare uomini e animali.
    Fu Bernini che nel 1658 si occupò di nuovo del suo rifacimento, la spostò nella posizione attuale e la collegò all’acquedotto dell’acqua Paola che proveniva dal Fontanone sul Gianicolo.

    Un testo del 1600 dove si vede chiaramente la posizione originaria della fontana.

    Ma anche la fontana del Bernini non durò molti anni se è vero che di nuovo Carlo Fontana nel 1692 la ebbe a rifarla per aumentarne la capacità. Tra i suoi interventi la sostituzione delle conchiglie berniniane che divennero così più grandi e furono disposte in posizione eretta. Ma la fontana che ammiriamo oggi non è quella imponente di Carlo Fontana, ma ciò che ne resta dopo un restauro di fine Ottocento.
    Ponendosi nella piazza di Santa Maia in Trastevere risulta ben chiara l’antica topografia di questa parte del rione e l’assoluta centralità che vi ebbe la piazza stessa, collocata nel punto di convergenza delle tre strade importanti del rione: le due sistemate ai primi del cinquecento da Giulio II, via della Lungaretta e via della Scala, in prosecuzione di via della Lungara, e il seicentesco rettilineo di Paolo V, la via di San Francesco a Ripa.
    Nella gerarchia delle chiese romane, Santa Maria in Trastevere occupa un

    La fontana di Carlo Fontana.

    posto di primo piano, venendo subito dopo le quattro basiliche maggiori, San Pietro, San Paolo, San Giovanni e Santa Maria Maggiore per la sua antichità. Essa fu anche tra le prime a essere dedicata alla Madonna, insieme a Santa Maria Antiqua tra Foro Romano e Palatino e Santa Maria Maggiore. Inoltre Santa Maria in Trastevere fu la prima a essere insignita del privilegio di “basilica minore” ed è quella che più frequentemente, in certi anni giubilari tormentati da calamità e pestilenze, veniva sostituita alla lontana San Paolo fuori le Mure sulla via Ostiense nelle visite d’obbligo dei pellegrini.
    Secondo la tradizione, la chiesa sarebbe stata fondata da papa Callisto I tra il 217 e il 222 e sarebbe stata completata da Giulio I nel 352. Nel nono secolo Gregorio IV compì altri lavori per depositarvi corpi di santi tratti dalle catacombe esposte ai colpi di mano dei Musulmani. Ma radicale e decisivo per le sorti della basilica fu il rifacimento totale nel secolo XII, avviato da Innocenzo II e completato da Eugenio III, il quale costruì, in ultimo, il

    Particolare di una delle conchiglie della fontana di Carlo Fontana.

    campanile, che può essere datato tra il 1145 e il 1153. Rifacimento che venne effettuato utilizzando quasi esclusivamente i travertini e i marmi delle terme di Caracalla.
    Altri lavori vennero eseguiti nel 1584 a cura del cardinale Marco Sitico Altemps, mentre nel 1617 venne rifatto il soffitto della chiesa medesima e, per tutto il secolo, si lavorò alla costruzione delle cappelle barocche. Nel 1702, su progetto di Carlo Fontana, venne creato il protiro. Notevoli altri lavori vennero eseguiti da Virginio Vespignani sotto Pio IX.
    Nella preistoria della basilica sta un fatto straordinario che non dovrebbe essere privo di qualche obiettivo fondamento: lo zampillare dal suolo di una fonte di olio minerale che, in seguito, sarebbe stata considerata preannuncio e simbolo dell’avvento dell’era cristiana. Il luogo della “fons olei” è oggi indicato da un gradino del presbiterio.
    Nella facciata, che risulta il centro focale della bella piazza raccolta, quasi come un antico atrio, attorno alla basilica, si nota in modo particolare la

    Particolare del mosaico della facciata: Maria in trono che allatta il Bambino.

    scintillante fascia dei mosaici, forse risalenti al XIII secolo e probabilmente restaurati da Pietro Cavallini. Poi lo sguardo ascende verso l’alto dello snello campanile romanico dove splende in piccolo tabernacolo il mosaico della Vergine con il Bambino. A coronamento del campanile c’è una campana esterna, mentre più in basso si trova un grande orologio.
    Il portico con cinque cancelli è coronato da una balaustra con statue, e contiene un denso lapidario cristiano e avanzi marmorei della più antica chiesa.
    L’interno, di tipo basilicale, è a tre navate divise da due file di 22 colonne di granito. Altre due colonne sostengono l’arco trionfale e due coppie di minori colonne reggono gli archi terminali delle navate minori. La grande

    Mosaico del catino absidale.

    aula è avvolta in un’atmosfera di equilibrata, ma esaltante policromia che va dal pavimento cosmatesco ai lacunari del soffitto, fino allo sfolgorio dei mosaici dell’abside.
    Il soffitto venne disegnato dal Domenichino nel 1617 del quale è anche la grande figura dell’Assunta, dipinta su rame, che si trova al centro del complesso lavoro di intaglio, di dorature e di pittura. I mosaici absidali sono su tre fasce: in basso, tra scene dipinte del Cinquecento, domina un riquadro del Cavallini con la “Madonna e i Santi”; al di sopra sono le scene della vita della Vergine Maria dello stesso autore; più in alto sono i mosaici del XII secolo con scene simboliche nel semicatino e figure di profeti nel frontone.
    Nel presbiterio, dominato dal cinquecentesco soffitto a cassettoni, si notano il ciborio su colonne di porfido, rifatto dal Vespignani, plutei e candelabro pasquale dei Cosmati.

    Cappella Altemps. La volta.

    In una piccola nicchia in fondo alla navata destra sono conservati alcuni strumenti di morte e di tortura utilizzati per numerosi martiri: catene, pesi di ferro e pietre. Secondo la leggenda tra questi strumenti di tortura ci sarebbero anche le catene e i pesi che furono legati al collo di San Callisto quando questi fu gettato nel pozzo per annegarlo. Il pozzo teatro del martirio è invece conservato nella vicina chiesa di San Callisto.
    A fianco dell’abside e nel transetto ci sono interessanti monumenti funebri di varie epoche: da notare quello Armellini nel transetto di destra e, in quello di sinistra, un altare gotico e i due monumenti laterali.
    Fra le cappelle, risaltano quella Altemps, sulla sinistra dell’abside, progettata da Martino Longhi e coperta di stucchi e dipinti, e quella D’Avila di Antonio Gherardi risalente al 1680, improntata a una architettura particolarmente fantasiosa per i giochi prospettici e illusionistici che portano il borrominismo alle estreme conseguenze.
    Si notano ancora nella chiesa un crocefisso ligneo dei primi del Quattrocento, un ciborio di Mino del Reame e il sepolcro dall’autore della chiesa medievale Innocenzo II, le cui spoglie vennero qui fatte trasferire dal Laterano all’epoca di Pio IX. La cappella del battistero è di Filippo Raguzzini.

    Roma, 23 febbraio 2020

  4. “C’era una volta Sergio Leone”

    C’era una volta Sergio Leone”, è il titolo evocativo della grande mostra

    Sergio Leone con Federico Fellini.

    all’Ara Pacis con cui Roma celebra, a 30 anni dalla morte e a 90 dalla sua nascita, uno dei miti assoluti del cinema italiano. Il percorso espositivo racconta di un universo sconfinato, quello di Sergio Leone, che affonda le radici nella sua stessa tradizione familiare: il padre, regista nell’epoca d’oro del muto italiano, sceglierà lo pseudonimo di Roberto Roberti, e a lui Sergio strizzerà l’occhio firmando a sua volta “Per un pugno di dollari” con lo pseudonimo anglofono di Bob Robertson.
    Nel suo intenso percorso artistico Sergio Leone attraversa il “peplum”, ovvero il filone cinematografico storico-mitologico, riscrive letteralmente il “Western” e trova il suo culmine nel progetto di una vita: “C’era una volta in America”. A questo sarebbe seguito un altro film di proporzioni grandiose, dedicato alla battaglia di Leningrado, del quale rimangono, purtroppo, solo poche pagine scritte prima della sua scomparsa.
    Leone, infatti, non amava scrivere. Era, piuttosto, un narratore orale che sviluppava i suoi film raccontandoli agli amici, agli sceneggiatori, ai produttori, all’infinito, quasi come gli antichi cantori che hanno creato l’epica omerica. Ma ciò nonostante, il suo lascito è enorme, un’eredità creativa di cui solo oggi si comincia a comprendere la portata. I suoi film sono, infatti, “la Bibbia” su cui gli studenti di cinema di tutto il mondo imparano il linguaggio cinematografico, mentre molti dei registi contemporanei, da Martin Scorsese a Steven Spielberg, da Francis Ford Coppola a Quentin Tarantino, da George Lucas a John Woo, da Clint Eastwood ad Ang Lee continuano a riconoscere il loro debito nei confronti del suo cinema.
    Le radici del cinema di Sergio Leone affondano, naturalmente, anche nell’amore per i classici del passato – in mostra i film dei giganti del western, da John Ford ad Anthony Mann – e rivelano un gusto per l’architettura e l’arte figurativa che ritroviamo nella costruzione delle scenografie e delle inquadrature, dai campi lunghi dei paesaggi metafisici suggeriti da De Chirico, all’esplicita citazione dell’opera “Love” di Robert Indiana, straordinario simbolo, in “C’era una volta in America”, di un inequivocabile salto in un’epoca nuova.
    Per Leone la fiaba è il cinema. Il desiderio di raccontare i miti, il West, la Rivoluzione, l’America, utilizzando la memoria del cinema e la libertà della fiaba, entra però sempre in conflitto con la sua cultura di italiano che ha conosciuto la guerra e attraversato la stagione neorealista.
    A partire da “Per qualche dollaro in più” Leone può permettersi di assecondare la sua fascinazione per il passato e la sua ossessione documentaria per il mito curando ogni minimo dettaglio. Perché una favola cinematografica, per funzionare, deve convincere gli spettatori che quello che vedono stia accadendo realmente.
    Grazie ai preziosi materiali d’archivio della famiglia Leone e di Unidis Jolly Film i visitatori entreranno nello studio di Sergio, dove nascevano le idee per il suo cinema, con i suoi cimeli personali e la sua libreria, per poi immergersi nei suoi film attraverso modellini, scenografie, bozzetti, costumi, oggetti di scena, sequenze indimenticabili e una costellazione di magnifiche fotografie, quelle di un maestro del set come Angelo Novi, che ha seguito tutto il lavoro di Sergio Leone a partire da “C’era una volta il West”. Seguendo queste tracce, la mostra “C’era una volta Sergio Leone” è, quindi, suddivisa in diverse sezioni: “Cittadino del cinema”, “Le fonti dell’immaginario”, “Laboratorio Leone”, “C’era una volta in America”, “Leningrado e oltre”, dedicata all’ultimo progetto incompiuto, “L’eredità Leone”.
    Sarà inoltre pubblicato dalle Edizioni Cineteca di Bologna il volumeLa rivoluzione Sergio Leone”, a cura di Christopher Frayling e Gian Luca Farinelli.
    Dalla scheda di presentazione ufficiale della mostra pubblicata sul sito del Museo dell’Ara Pacis.

    Roma, 23 febbraio 2020