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  1. La Scala Santa, il Sancta Sanctorum, i sotterranei e il giardino

    Dopo un lungo periodo di chiusura e un accurato restauro a cura dei laboratori dei Musei Vaticani, la Scala Santa è ora visibile con i suoi

    La Scala Santa percorsa in ginocchio dai fedeli.

    gradini originari in marmo. Si potranno ammirare fino al 9 giugno 2019, festa di Pentecoste, dopodiché saranno coperti nuovamente da rivestimenti in legno.
    Luogo di fede tra i più venerati a Roma, la visita prevede una prima tappa al Patriarchio, la cappella privata dei papi nei secoli in cui abitavano a San Giovanni in Laterano, la Cattedrale di Roma. Si proseguirà nell’area sotterranea dove si conservano tracce pittoriche dell’antico Patriarchio Lateranense. Si accederà, infine, al giardino dei Padri Passionisti, luogo di pace e arte che si sviluppa alle spalle della Scala Santa, utilizzato in passato per la coltivazione delle erbe officinali.
    Al Laterano, il fulcro attorno al quale ruota una parte importante della storia della Chiesa di Roma, carità e arte si fondono nell’immagine di Cristo Salvatore del mondo. La storia parte da lontano, esattamente dalla prima metà IV secolo: la Basilica Lateranense voluta da Costantino il Grande fu intitolata al Santissimo Salvatore e consacrata il 9 novembre del 324, sotto il pontificato di Silvestro I. Per l’occasione, fu realizzato un mosaico raffigurante il Salvator Mundi per il catino absidale della cattedrale. La dedicazione di questa basilica a San Giovanni Battista, così come la conosciamo, ebbe luogo molto più tardi, nel IX secolo, ad opera di papa Sergio III; mentre tre secoli più tardi, papa Lucio II estese la dedicazione a san Giovanni evangelista, l’apostolo prediletto da Gesù. La storia del Salvator Mundi s’intreccia con quella del Volto Santo,

    Il Salvator Mundi.

    l’immagine del volto del Signore che sarebbe rimasta impressa sul velo della Veronica quando essa gli asciugò il viso, durante la salita al Calvario. Nel VII secolo circa l’icona del Volto Santo o Acheropirita del Salvatore, cioè dipinta da mano non umana, proveniente da Costantinopoli, fu collocata nella cappella di San Lorenzo al Patriarchio Lateranense, la cappella privata del papa, a due passi dalla basilica.La cappella era conosciuta come Sancta Sanctorum alla Scala Santa, e costituisce il luogo più sacro per la cristianità che ci sia al mondo, essa è stata anche il più grande reliquiario di Roma, perché ospitava alcune delle reliquie più importanti. Tra queste la Scala Santa, quella che, secondo la tradizione, Gesù avrebbe salito a Gerusalemme per raggiungere l’aula dove avrebbe subito l’interrogatorio di Ponzio Pilato prima della crocifissione. Una scala che ancora oggi è oggetto di venerazione, sui cui gradini di legno s’inerpicano in ginocchio pellegrini in preghiera. La Scala Santa era stata fatta trasferire a Roma da Elena, la madre di Costantino, in occasione del suo viaggio a Gerusalemme alla fine del IV secolo, per rintracciare i segni della vicenda terrena del Signore. Non si sa con esattezza dove fosse stata custodita l’icona del Volto Santo del Salvatore dopo il suo arrivo a Roma da Costantinopoli, ma la sua presenza nella cappella al Laterano è attestata già all’epoca di papa Stefano II, 752-757, ed è noto che fino al IX secolo era tradizione che essa uscisse dal Laterano per essere portata in processione per le vie di Roma in occasione delle principali festività mariane. Nel 753 dopo Cristo il cuore della cristianità venne a trovarsi sotto la minaccia dei Longobardi guidati da Astolfo, che reclamavano la restituzione dei territori che i loro

    Mosaici del Sancta Sanctorum.

    predecessori avevano donato al Papa. In questa occasione, per chiedere la protezione divina, la reliquia fu portata in spalla da papa Stefano dal Laterano a Santa Maria Maggiore a piedi nudi e con il capo coperto di cenere. La vicenda ebbe un esito felice, dal momento che Astolfo rinunciò a reclamare i territori contesi e a muovere guerra a Roma, cosa che fu interpretata come un miracolo del Volto Santo. Dalla metà del secolo IX in poi, e a partire dal pontificato di Leone IV, 847-855, la processione del Volto Santo aveva luogo una sola volta l’anno, in occasione della solennità dell’Assunzione in cielo della Beata Vergine Maria e si teneva nella notte fra il 14 e il 15 agosto. Alla luce delle fiaccole l’immagine usciva dal Sancta Sanctorum a mezzanotte e raggiungeva il Colosseo passando per via dei Santi Quattro Coronati e San Clemente. Dal Colosseo il corteo passava sotto l’arco di Costantino e, percorrendo la Via Sacra, sotto l’arco di Tito, raggiungeva Santa Maria Nova, oggi Santa Francesca Romana. Durante questo tragitto passava poi davanti ad un oratorio ormai scomparso, eretto per ricordare la sfida lanciata da Simon Mago, considerato dagli eresiologi come il primo degli gnostici, a san Pietro. Dopo una breve sosta a Santa Maria Nova, il corteo si addentrava nel Foro Romano e arrivava fino all’arco di Settimio Severo, dove il Senato attendeva la preziosa icona su un palco eretto per l’occasione.

    Affreschi del Sancta Sanctorum.

    Questo era il momento in cui le autorità civili rendevano il loro omaggio alla sacra immagine. La processione continuava il suo percorso attraverso la Suburra, la salita di San Martino ai Monti, via di Santa Prassede e arrivava all’alba a Santa Maria Maggiore dove l’attendeva il Papa, che già ai tempi di Innocenzo III, 1198-1216, non andava più in processione. Nella basilica mariana avveniva la parte più importante del rito: l’immagine di Gesù entrava nella basilica per incontrare e rendere omaggio a sua Madre. Era questo il momento in cui l’icona del Volto Salto incontrava la Salus Popoli Romani, l’icona di Maria più importante e miracolosa di Roma che ancora oggi si trova custodita nella basilica di Santa Maria Maggiore. Di qui il corteo imboccava via Merulana e prendeva la strada del ritorno in Laterano, dove l’icona del Salvatore tornava al suo posto sull’altare della Cappella al Sancta Sanctorum. Da un punto di vista artistico il Sancta Sanctorum è un autentico gioiello: gli affreschi delle pareti e della volta come anche il pavimento cosmatesco, fanno da meraviglioso coronamento al mosaico posto al di sopra dell’altare sul quale è poggiata l’immagine del Salvatore. L’altare è poi incorniciato da due colonne di porfido. Secondo lo studioso di arte cristiana Heinrich Pfeiffer, l’icona giunse a Roma da Costantinopoli attorno all’anno 705. A partire dal pontificato di Gregorio II fu custodita nel Sancta Sanctorum per tutto il tempo delle lotte iconoclaste, così da preservare, durante quei torbidi nei quali le immagini sacre venivano distrutte, l’icona di Cristo più cara alla cristianità. Quando gli imperatori bizantini persero pian piano il loro potere e il loro influsso sull’Italia, quell’immagine poté essere

    Affreschi del Sancta Sanctorum.

    trasferita in Vaticano, mentre al Sancta Sanctorum fu posta una copia, che è proprio quella che vediamo oggi. Fu Innocenzo III a promuoverne il culto e in quella occasione, per la prima volta, l’immagine originale trasferita a San Pietro fu denominata Veronica, cioè “vera icona” di Cristo. Il titolo Volto Santo rimase invece indicare solo quella custodita al Sancta Sanctorum. Sempre secondo Pfeiffer, l’immagine vaticana si troverebbe oggi a Manoppello, un piccolo paese in Abruzzo, per una serie di vicende a dir poco appassionanti. Ciò vuol dire che anche quella conservata a San Pietro oggi non sarebbe altro che una copia. Nel tardo Medio Evo a custodire l’icona del Volto Santo al Laterano era stata chiamata una confraternita che aveva il compito di amministrare un grande ospedale per i poveri e gli infermi, annesso alla Basilica Lateranense. L’emblema della confraternita era proprio l’antichissima immagine del mosaico del Salvatore collocato nell’abside della basilica. Nel XVII secolo, l’immagine del Salvatore fu scelta come insegna per un’opera di carità voluta da Innocenzo XII: il pontefice volle riunire al Palazzo del Laterano le tante manifestazioni caritatevoli della città per centralizzarle e rendere più efficace l’assistenza ai poveri di Roma, ricollegandosi a quel che era già accaduto con il pontificato di Gregorio

    Pavimento cosmatesco del Sancta Sanctorum.

    Magno. Fu realizzata un’opera di carità capillare, che coinvolse l’intera città e che tanto beneficio ebbe a dare ai poveri e ai derelitti dell’urbe. Tutto il popolo di Roma fu chiamato a sostenere questa grande opera attraverso l’elemosina. Sette edifici sparsi per la città furono destinati a centri di raccolta per le elemosine devolute dai romani, che erano poi concentrate al Laterano. Per mettere sotto la protezione del Signore questa opera, furono posti su questi edifici dei bassorilievi raffiguranti proprio il Salvator Mundi. La storia del Salvator Mundi del Laterano lambisce anche quella di uno dei più grandi artisti dell’urbe. Secondo lo storico dell’arte americano Irving Lavin, Gian Lorenzo Bernini volle scolpire un busto del Salvator mundi per destinarlo al Palazzo Laterano, proprio là dove si svolgevano le pratiche di carità. Secondo quanto riportato nelle due biografie di Bernini redatte dai figli, il busto raffigurante il Salvator mundi fu l’ultima opera del Bernini, realizzata un anno prima di morire e scolpita solo per “sua devotione” tanto che il grande scultore barocco parlava della sua opera definendola “il mio Beniamino”.Questa ipotesi non è in contraddizione con quella di Irving Lavin. D’altro canto la splendida scultura del Bernini esiste davvero ed è oggi conservata nella Basilica di San Sebastiano fuori le Mura, sull’Appia Antica. La si vede immediatamente, appena entrati nella basilica. A destra.

  2. Racconto

    Palazzi di fiaba nella realtà

    Hans Christian Andersen

    Il brano che presentiamo è tratto da Il bazar di un poeta, pubblicato da Hans Christian Andersen nel 1842. Il bazar di un poeta raccoglie le

    Hans Christian Andersen – foto da Tora Hallager – 1869.

    impressioni e gli appunti di viaggio che lo scrittore di fiabe svolse per 9 mesi tra Germania, Italia, Grecia e Oriente, tra il 1833 e il 1834. L’opera è divisa in 6 capitoli e di questi uno è interamente dedicato all’Italia. Vi si trovano, descrizioni, appunti e schizzi su Roma, Napoli, Bologna, la Sicilia e anche descrizioni dell’attraversamento degli Appennini.

    “Le antiche divinità vivono ancora!” – si, in una fiaba possiamo anche dirlo, ma nella realtà? Eppure la realtà è spesso una fiaba.
    Il fanciullo che legge Le mille e una notte, vede nella sua immaginazione meravigliosi palazzi fatati che lo rendono felice, ma capita sempre qualcuno più vecchio di lui che gli dice: “simili cose non si trovano nella realtà” e invece si, qui a Roma si trovano e come! Per la loro grandiosità e magnificenza, il Vaticano e la basilica di San Pietro appaiono come visioni davvero irreali, simili ai castelli eretti dalla fantasia nell’antico libro d’oriente. Siamo andati a vederli per verificare di persona se le antiche divinità vivono ancora.
    Ci troviamo sulla piazza di san Pietro; a destra e a sinistra abbiamo tre serie di colonne, la chiesa che ci sta davanti è sotto ogni riguardo talmente grandiosa che a noi manca un metro adeguato per misurarla.

    Piazza San Pietro – Roma

    Essa armonizza così perfettamente con la piazza e col possente Palazzo del Vaticano alla sua destra, che non possiamo fare altro che affermare: si, è veramente un grande edificio di tre piani! Ma poi osserviamo la folla che avanza come la marea su per la gradinata – larga, questa, come l’intera base dell’edificio – ed ecco che, non appena l’occhio ha colto le proporzioni delle finestre e delle porte, tutti quegli esseri umani ci appaiono, al confronto, come dei puntini, come dei pupazzetti. Ecco, ora ne costatiamo la grandiosità, ma non possiamo ancora afferrarla pienamente.

    continua…

  3. Santa Maria in Cosmedin, la Schola graeca e i cattolici greci di rito bizantino

    La Bocca della Verità – Santa Maria in Cosmedin.

    Un’antica e grossolana scultura – probabilmente un chiusino che convogliava le acque piovane alla cloaca – è assurto, col favore della fantasia popolare, a toponimo di un ambiente che ha ben altri titoli di gloria da vantare. Vale a dire il centro della zona mercantile dell’antica Roma fra il porto fluviale dei tempi più lontani e l’Emporio della fine della Repubblica e dei primi tempi dell’Impero.
    Qui si ergono templi importanti e pubblici uffici: il luogo che fu del Foro Olitorio, mercato delle verdure, e il Foro Boario, mercato del bestiame. Banchieri e cambiavalute svolgevano la loro attività nel Velabro, dove ancora si può ammirare l’Arco degli Argentari.
    Caduto l’impero ed entrata l’Urbe nella fase di influenza bizantina, fu questo il centro della colonia greca, con una fiorente cultura che si manifestò soprattutto nelle arti decorative: la cosiddetta Schola Graeca. Non solo: fiorirono una serie di diaconie, veri e propri centri di assistenza ai poveri, sorte sull’esempio di quelle della Chiesa in oriente. Col passare del tempo, accanto o al di sopra delle diaconie, furono innalzate chiese intitolate a santi orientali: San Teodoro, San Giorgio al Velabro, San Nicola in Carcere, Sant’Anastasia, e Santa Maria in Cosmedin, basilica importantissima, conosciuta purtroppo per la cosiddetta Bocca della Verità, vale a dire il chiusino di cui sopra. Migliaia di turisti ogni giorno si sottopongono a file chilometriche per scattare foto davanti alla

    Navata – Santa Maria in Cosmedin.

    minacciosa Bocca che si trova nel portico. Quasi nessuno entra nella bellissima chiesa officiata ancora oggi col rito cattolico greco-melchita a testimonianza delle antiche origini orientali dell’area.
    Chi sono i Melkiti? Il termine deriva dal siriaco malka, ovvero re, sovrano. Con questo termine si intende definire il complesso dei cristiani dei patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, i quali accettarono il concilio di Calcedonia e, di conseguenza, le direttive ufficiali della corte di Costantinopoli. I Melkiti seppero sempre garantire la sopravvivenza di Chiese proprie, seguirono i loro riti tradizionali fino al XII-XIII secolo, quando, per effetto del plurisecolare vincolo con la chiesa bizantina, finirono per mutarne il rito: come lingua liturgica mantennero, comunque, l’arabo ormai corrente nella popolazione. A differenza della gerarchia rimasta nel corso del tempo prevalentemente ellenofona. Ad Alessandria e a Gerusalemme ancora oggi i patriarchi sono greci. Nel corso dei secoli, una parte dei Melkiti si mosse verso l’unione con la chiesa cattolica. Un movimento che mosse i primi passi solo a partire dal 1856. Verso il 1880 la presenza cattolica si registrava ormai nella campagna tracia. Fino al 1895, quando si riuscì a istituire a Costantinopoli un seminario e due parrocchie greco-cattoliche. Nel 1911 papa Pio X creò in Turchia un esarcato apostolico per i cattolici di rito bizantino. Nel 1923, Roma provvide a spostare ad Atene l’esarcato apostolico.
    Attualmente i cattolici greci di rito bizantino si riducono ad un’esigua minoranza; vivono per lo più concentrati ad Atene e una piccola parrocchia cattolica sopravvive ad Instanbul.

    Santa Maria in Cosmedin.

    Roma ha Santa Maria in Cosmedin, col suo campanile snello a sette piani di bifore e di trifore che si staglia leggero ed elegante, decorato di maioliche a più colori. È fra i più belli dell’epoca romanica; risale al XII secolo ed è alto 34,20 metri e conserva una campana del 1289.
    L’interno si presenta nella forma che assunse nel suo momento di maggior splendore nel XII secolo; infine col suo nome rievoca, come s’è già scritto, un particolare periodo della storia romana, svoltosi sotto un prevalente influsso bizantino, con una consistente colonia orientale che gravitava in questa zona. Questa fu soprattutto importante nei secoli tra il VII e il IX, prima per la decisa prevalenza politica di Bisanzio che aveva i suoi governatori insediati nei palazzi del Palatino, e poi per l’afflusso dei profughi sfuggiti alle persecuzioni iconoclaste. La sponda tiberina corrispondente si chiamò ripa graeca; intitolazioni a santi greci ebbero tutte le chiese dei dintorni e infine questa chiesa derivò il suo nome probabilmente dal celebratissimo monastero di Costantinopoli, detto il cosmidìon.

    Pavimento – Santa Maria in Cosmedin.

    Santa Maria in Cosmedin ebbe origine da una diaconia, organismo a carattere assistenziale, con la quale la Chiesa, a partire dai secoli VI e VII sostituì gradualmente l’autorità civile sempre più assente. Nel VI secolo, la diaconia si insediò nei locali antichi, che fondatamente si ritiene abbiano ospitato la statio annona, cioè la sovraintendenza dei rifornimenti di viveri alla città, installata nei pressi della zona portuale, i Navalia militari dell’epoca repubblicana, l’Emporium commerciale dell’epoca imperiale. Iscrizioni di carattere annonario ne forniscono la giustificata convinzione.
    Questo ambiente che forse si articolava in varie costruzioni, attorno all’Ara Maxima di Ercole, comprendeva una grande loggia, probabilmente per i mercanti, che aveva un andamento trasversale alla chiesa attuale. In un primo momento la chiesa si allogò nell’interno della loggia, utilizzandone trasversalmente solo una parte; quindi nel secolo VIII, papa Adriano I la fece ampliare fino alle proporzioni odierna e con foggia basilicale. Ai primi del XII secolo, all’epoca di Callisto II, un prelato Alfano continuò l’opera di riordinamento che era stata iniziata alla fine dell’XI da papa Gelasio II. La chiesa si presentò con le caratteristiche che vi sono state ripristinate da un restauro del 1893.
    All’esterno, un protiro e il portico costruiti da Adriano I e sopraelevati da papa Gelasio. Nel portico, sovrastato da un locale a monofore, si trovano interessanti testimonianze antiche, dalla Bocca della Verità, il famoso chiusino di fogna, all’ornato portale di Giovanni da Venezia del secolo IX, al sepolcro del citato prelato Alfano, che è il prototipo dei successivi monumenti funebri del due-trecento.
    L’interno a tre navate, le cui absidi hanno la caratteristica di terminare con bifore, ha al centro, tra due file di colonne e pilastri, una grande aula fino al soffitto a semplici lacunari dipinti. Ai lati della porta principale, come nella sagrestia, si trovano le grandi colonne corinzie della loggia del IV secolo, su cui si inserì la iniziale diaconia. Il pavimento è in opus sectile dei marmorari pre-cosmateschi degli inizi del XII secolo.

    Cripta – Santa Maria in Cosmedin.

    Lungo le pareti e sull’arcone trionfale si vedono avanzi della decorazione pittorica a strati sovrapposti dei secoli XI e XII. La pergula o iconostasi, con gli amboni e il candelabro, è ricostruita secondo i suggerimenti forniti dagli avanzi antichi. Sul presbiterio è un ciborio gotico del XIII secolo, opera di Deodato, della famiglia dei Cosmati, con archi trilobati e lucenti smalti di mosaico. Anche il pavimento è cosmatesco. Nel fondo, è la cattedra episcopale.
    Si accede alla cripta, ricavata dal podio di un tempio antico: ha foggia di piccola basilica con due file di colonnine. È del secolo VIII.
    La sagrestia conserva un bel mosaico dell’anno 705, proveniente da un distrutto oratorio che esisteva presso San Pietro: è un frammento di una raffigurazione dell’Epifania.
    Da notare anche la seicentesca Cappella del Coto progettata da Carlo Maratta che eseguì anche le quattro statue delle “Virtù”. Vi è venerata una immagine del secolo XIII della Teotokos, o Madre di Dio, simile a quella di Santa Maria del Popolo.

    Roma, 14 aprile 2019.

  4. I tesori del Celio: Chiesa di Santo Stefano Rotondo

    Il Celio è tra i sette colli di Roma il più affascinante: un lungo e silenzioso promontorio che si distacca da un pianoro dal quale nascono l’Esquilino, il Viminale e il Quirinale. Esso corrisponde a quella porzione di territorio che si distende verso la valle occupata dal Colosseo e dalla basilica dei Santi Quattro Coronati.

    Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

    A partire dal VI secolo, il Celio fu annesso alla II Regione ecclesiastica per la sua vicinanza alla Basilica Lateranense, tanto che per l’intero colle venne spesso utilizzato il toponimo di “Laterano”. Nuove chiese cominciarono a sorgere su antichissimi tituli, i primi luoghi di culto cristiani, il più delle volte ambienti di case private, e sugli xenodochia, centri di accoglienza per pellegrini e ammalati.
    Lungo il colle, tagliato in parte da Villa Celimontana, sta una costellazione di chiese di sublime bellezza, in cui si incrociano e si sovrappongono storie di santi, di martiri, di papi e di sovrani.

    Partendo dalle pendici, si comincia con San Clemente per proseguire, inerpicandosi per il colle, con i Santi Quattro Coronati, Santo Stefano Rotondo, Santa Maria in Domnica, San Tommaso in Formis, la basilica e i luoghi del martirio dei santi Giovanni e Paolo, e la chiesa e del tre cappelle dedicate a San Gregorio Magno: un itinerario da capogiro.
    In tale costellazione di chiese, Santo Stefano Rotondo è la più misteriosa. Le sue origini sono antiche e ricalcano la cronologia di molti luoghi di culto del Celio, primordiali spazi religiosi pagani riconvertiti ad uso cristiano. Santo Stefano non si sottrae a questa sorte. La prima basilica fu edificata per volere di Papa Simplicio tra il 468 e il 483 e in quell’intreccio di anni risultava essere uno dei primi templi cattolici. Trascorsi quasi due millenni mantiene tutt’oggi un record importante, quello di presentarsi come la più grande chiesa a pianta centrale esistente al mondo. Datazione fondamentale per capire quando tutto ebbe inizio è il 415, anno in

    Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

    cui furono ritrovate a Rappa Gamela, vicino Gerusalemme, le reliquie di santo Stefano, lapidato nel 35 dopo Cristo per la sua attività di predicatore.
    Con una virtuale macchina del tempo dobbiamo scavalcare Simplicio, e fermarci al I secolo dopo Cristo: i resti di un antico mitreo e dei Castra Peregrina, caserma di epoca imperiale che accoglieva e smistava le legioni straniere, ci raccontano che sotto la Chiesa dedicata a Santo Stefano diacono e protomartire vi era un altro tempio, stavolta pagano, e un’area per gli eserciti. Una vicinanza non così sospetta se ci si ricorda del legame quasi imprescindibile che associava il dio Mitra ai militi: questi ultimi infatti si affidavano alla divinità persiana perché garante di protezione della categoria nonché di vittorie nelle battaglie.
    Rintracciate e riconosciute le fondamenta della nostra basilica, la pianta – costituita in passato da tre anelli concentrici e a croce latina – ci suggerisce un’altra evidente suggestione che fece da modello per Santo Stefano: la famosa chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, voluta dall’imperatore Costantino tra il 326 e il 334. Lì un muro esterno e due colonnati anulari circondavano il sepolcro di Cristo. La scelta di tale configurazione non era marginale ma anzi funzionale: in tal modo i fedeli potevano avvicinarsi gradualmente e con movimento continuo all’oggetto della loro visita senza creare “ingorghi” tra chi entrava e chi usciva. Non è un caso che le chiese con santuario hanno corridoi e ballatoi e sono edificate a pianta centrale: tutto ciò segue la precisa logica che permette di girare intorno al sacrario stabilendo una delle usanze tipiche dei pellegrinaggi. Gli antenati di queste strutture religiose circolari risalgono all’Età Imperiale, e infatti come dimenticare i perimetri murari della Villa di Adriano a Tivoli?, ma dobbiamo spingerci geograficamente e

    Mosaico di Primo e Feliciano, particolare.

    cronologicamente più lontano, in quell’Oriente ellenistico – la vasta zona tra Egitto, Siria e Anatolia dopo il 324 avanti Cristo – per ritrovare gli edifici governativi che fecero da esempio ai palazzi dell’Impero romano e che come un filo rosso tessono le trame storiche e artistiche tra la Grecia e Roma. Ma queste sono le radici; noi adesso vediamo ciò che rimane di un tronco e di una chioma fortemente sfoltite dal passaggio dei secoli, ma non per questo prive di fascino e incanto. La chiesa ha subito azioni di spoglio – umane, meteorologiche, ambientali e non ultime culturali – e i conseguenti interventi conservativi e restaurativi ce la restituiscono per ciò che è: un impianto fortemente diverso da quello concepito da Simplicio. Non vediamo più l’anello esterno basso e sopraelevato nei quattro punti contrapposti così da formare la croce greca, ma dalle fonti sappiamo che entrando ci si immergeva in una navata anulare bassa coperta da volte a botte dove si incontravano le cappelle; queste conducevano allo spazio centrale invece molto alto. Per enfatizzare lo stupore del visitatore, secondo alcuni testi, si alternavano nell’anello esterno tratti coperti a zone aperte così da creare un suggestivo gioco di luci e ombre. Gioco ripetuto all’interno dai colonnati circolari che formavano pieni e vuoti luministici per un effetto scenografico garantito. Sappiamo che i papi Giovanni I e Felice IV tra il 523 e il 529 ordinarono dei ricchi ornamenti purtroppo oggi non più visibili, ma possiamo constatare uno dei provvedimenti più significativi di quel momento: la chiusura di molti ingressi che permettevano l’accesso

    Martirio dei Santi Giovanni, Paolo e Bibiana – Pomarancio e Antonio Tempesta – Santo Stefano Rotondo.

    alla Chiesa. Questo perché pochi erano i credenti che gravitavano intorno alla zona del Celio – nel Medioevo progressivamente abbandonata – e perché la basilica non possedeva un ordine clericale stabile. Di quegli interventi rimane l’antico trono, proveniente forse dal Colosseo, che sulla sinistra dell’ingresso approva la nostra entrata. I restauri del XIII ci restituiscono un trono muto e monco nelle sue parti più caratteristiche, i braccioli e la spalliera. Un secolo più tardi, tra il 642 e il 649 ricopre il soglio pontificio Teodoro I che si lancia in una decisione piuttosto intraprendente, quella di spostare le reliquie dei martiri Primo e Feliciano a Santo Stefano. Cosa c’è di così ardito in tale provvedimento? Per la prima volta le spoglie inizialmente depositate nel cimitero di Via Nomentana e quindi fuori dalle mura urbane, entrano in città. Si erge una cappella, proprio di fronte all’altare maggiore, in uno dei bracci della croce iscritta e si cambia la conformazione del muro retrostante l’altare sostituito da un’abside sporgente. Visibile ai nostri occhi di visitatori moderni è la sistemazione dell’XI secolo quando si restringono i volumi della cappella per ricavare la sagrestia e un coro secondario. Gli affreschi raffiguranti il martirio dei santi eseguiti da Antonio Tempesta nel 1586 sembrano avvolgere e dialogare cromaticamente con l’altare scolpito da Filippo Barigoni nel 1736. Elemento che più di tutti caratterizza la cappella è la preziosa testimonianza dell’arte musiva nel catino absidale: qui un seppur rovinato mosaico del VII secolo ci frena davanti le composite ed eterogenee tessere che perfettamente si armonizzano tra loro grazie a un intonaco che trattiene bene i materiali ed evita la formazione di fessure intermedie.

    Martirio di San Vito, San Modesto e Santa Crescenza – Pomarancio – Santo Stefano Rotondo.

    Una tale abilità è attribuibile solo a un artista bizantino attivo a Roma e coadiuvato da maestranze locali. Al di là dei tecnicismi, ciò che stupisce è la soluzione adottata per rappresentare i due Santi che prima di divenir tali erano stati gettati in pasto ai leoni e agli orsi per poi essere decapitati. Non si sceglie di raffigurare il momento dell’atroce martirio, ma quello della piena serenità della Trasfigurazione, quando i due sono assunti ormai in Paradiso. Se prima di ammirare il mosaico si lambisce con gli occhi la parete circolare, soffermarsi nello spazio intimo e racchiuso della cappella non può che rincuorare l’animo. Infatti nei trentaquattro riquadri affrescati dal Pomarancio – al secolo Nicolò Circignani – nel 1583, troviamo la più truce rappresentazione dei supplizi che in ordine cronologico iniziano con la crocifissione di Cristo, primigenio atto di feroce violenza persecutoria. I colori vividi, i visi trasformati dal dolore o, dipendentemente dal ruolo, dal sadismo, restituiscono episodi drammaticamente realistici e raccapriccianti. La chiarezza didascalica, seppur cruenta ed enfatizzata dalle scritte in latino e italiano, di questa prova pittorica si deve ricondurre alla funzione che dal 1580 in poi assolve la basilica di Santo Stefano: in quell’anno, infatti, papa Gregorio XIII consegna la chiesa al Collegium Germanicum, un convitto diretto dai Gesuiti. La basilica si ritrova, così, ad essere punto di raccolta e di studio dei futuri ecclesiastici e ciò spiega la necessità educativa dell’apparato decorativo, adeguata alla nuova vocazione didattica della Chiesa. Ricordiamoci che siamo in piena Controriforma, che i gesuiti erano gli affidatari del verbo tridentino e che sull’arte grava adesso più che mai l’urgenza di coinvolgere e quasi sconvolgere il fedele in un’esperienza religiosa che rasenta il misticismo.

    Roma, 30 marzo 2019