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  1. Porta Asinaria

    Roma è la sola capitale europea ad aver mantenuto in modo abbastanza completo il circuito delle antiche mura difensive. Gli sventramenti tardo-

    Porta Asinaria – 1870 circa. Si ringrazia RomaSparita

    ottocenteschi e quelli del fascismo hanno devastato larghe zone della città quali il Vaticano, Piazza Venezia, l’Esquilino, ma hanno risparmiato le mura iniziate da Aureliano nel 271 e completate dai suoi successori nel 289. Mura costruite in economia, inglobando costruzioni preesistenti, come ad esempio la Piramide e l’Anfiteatro Castrense, che si dipanavano intorno alla città per 18 km per un’altezza di 7 metri.
    Porta Asinaria è una delle quattordici porte che si aprivano nelle mura. Sebbene gli studiosi non siano d’accordo sull’epoca di trasformazione della porta da semplice apertura di terz’ordine ad accesso monumentale, concordano invece sul fatto che molto presto ci si rese conto che l’intera area compresa tra la Porta Metronia e la Prenestina-Labicana, oggi Porta Maggiore, non era sufficientemente sicura. Vennero pertanto erette le torri cilindriche ai lati del fornice, alte circa 20 metri, ancora perfettamente conservate, e si provvide al rivestimento in travertino tuttora visibile sul lato esterno nonché all’apertura delle finestre per le “baliste”, macchine da guerra costituite da una specie di balestra atta a lanciare sassi o grossi dardi.

    Porta Asinaria e Porta San Giovanni – 1900 circa. Si ringrazia RomaSparita.

    In effetti, il restauro curato dallo stesso Aureliano poco dopo l’edificazione del muro, o da Massenzio circa un secolo dopo o ancora all’epoca dell’imperatore Onorio nel 401 – 402, promosse una porta che era poco più di una posterula al rango di porta vera e propria come la Pinciana e la Metronia.
    L’Asinaria è la sola, tra le porte antiche di Roma, ad avere contemporaneamente torri cilindriche affiancate a torri quadrangolari e questo conferma che, come le altre due, era in origine un’apertura di scarsa importanza, posta al centro di due delle torri a base quadrata che componevano la normale architettura delle mura. Una struttura così poderosa ne faceva, di fatto, una fortezza.
    Legata a diversi importanti avvenimenti storici: è famosa per essere stata utilizzata dai Goti di Totila, che la trovarono aperta, come anche la Porta San Paolo, per l’ingresso e il saccheggio della città il 17 dicembre 546 con relativa distruzione, secondo i cronisti dell’epoca, di un terzo della cinta muraria, poi frettolosamente ricostruita. Ma già qualche anno prima, nel 537, l’invito ai Goti, rivelatosi poi falso, ad entrare in Roma da quella porta costò a papa Silverio la deposizione dal soglio pontificio per tradimento.
    Nel 1084 passarono da qui anche l’imperatore Enrico IV e l’antipapa Guiberto di Ravenna per scacciare l’allora papa Gregorio VII, il cui

    Porta Asinaria – 1954 circa. Si ringrazia RomaSparita.

    liberatore, Roberto il Guiscardo mise a ferro e fuoco tutta l’area lateranense, arrecando gravi danni alla porta e alle mura circostanti. Anche il re Ladislao di Napoli entrò da qui nel 1404, e quattro anni dopo ne ordinò, per la prima volta, la chiusura per motivi difensivi. Ma fu riaperta dopo solo un mese. Venne definitivamente chiusa nel 1574, contemporaneamente all’apertura della vicina Porta San Giovanni, resa necessaria nell’ambito della ristrutturazione dell’intera area lateranense per agevolare il traffico da e per il Sud d’Italia. A quell’epoca, del resto, la porta Asinaria era divenuta ormai quasi inagibile per il progressivo innalzamento del livello stradale circostante, circa 9 metri, e anche per questo era ormai del tutto inadeguata a sostenere il volume di traffico, sebbene apparisse molto più imponente dell’altra.
    E’ proprio l’interramento progressivo che, però, ha consentito la conservazione, come è avvenuto anche per la Porta Ostiense, della fortificazione interna, conferendo all’intera struttura l’aspetto di un’opera difensiva autonoma.
    La porta deve il suo nome all’antica via Asinaria, percorso molto precedente alla stessa cinta muraria, che l’attraversava confluendo, più avanti, nella via Tuscolana. All’interno della città la via Asinaria diventava invece, con un singolare accostamento toponomastico, la Via Santa, che dal Laterano conduceva alla Basilica di San Pietro: in occasione delle incoronazioni dei nuovi pontefici nel Medioevo essa veniva percorsa dai papi neoeletti in processione, nella loro duplice veste di Pontefice e Vescovo di Roma. In documenti risalenti al 934 essa viene indicata con il nome di “Porta S. Johannis Laterani”, mentre nel XIII secolo è attestata la denominazione di Porta Lateranense.

    Porta Asinaria, Porta San Giovanni, Piazzale Appio e Basilica di San Giovanni. Si ringrazia RomaSparita.

    Nei pressi della porta venne rinvenuta una delle pietre daziarie, sistemate nel 175 e scoperte in tempi differenti nelle vicinanze di alcune porte importanti, ne sono state trovate solo altre due, vicino alla Salaria e alla Flaminia. Queste pietre erano poste a individuare una sorta di confine amministrativo, e nei loro pressi si trovavano gli uffici di dogana. Ma se questi uffici provvedevano alla riscossione delle tasse sulle merci in entrata e in uscita dalla città, in epoca medievale, dal V secolo e almeno fino al X, vennero adibiti anche alla riscossione del pedaggio per il transito dalle porte, alcune delle quali, secondo una prassi divenuta normale, erano addirittura di proprietà di qualche ricco possidente o appaltatore. In un documento del 1467 è riportato un bando che specifica le modalità di vendita all’asta delle porte cittadine per un periodo di un anno. Da un documento del 1474 si apprende che il prezzo d’appalto per la porta San Giovanni, da leggersi pertinente alla Porta Asinaria visto che la San Giovanni venne aperta un secolo dopo, era pari a ”fiorini 74, sollidi 19, denari 6 per sextaria”, dove con la parola sextaria si indica che il

    Porta Asinaria in una stampa antica.

    pagamento avveniva in rate semestrali: Si trattava, secondo gli studiosi, di un prezzo abbastanza alto, e intenso doveva quindi essere anche il traffico cittadino per quel passaggio, per poter assicurare un congruo guadagno al compratore. Guadagno che era regolamentato da precise tabelle che riguardavano la tariffa di ogni tipo di merce, ma che era abbondantemente arrotondato da abusi di vario genere, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce, che venivano emessi.
    Dopo la chiusura avvenuta nel 1574 la porta rimase chiusa per più di due secoli quando il 21 aprile del 1954 venne riaperta in occasione della festa del Natale di Roma, dopo un lungo e accurato restauro. Oggi la porta è utilizzata solo come passaggio pedonale.

    Roma, 16 febbraio 2019

  2. Santa Prassede. Il Giardino del Paradiso.

    Parallela a via Merulana, corre, prossima a Santa Maria Maggiore, via di Santa Prassede. Sulla destra, un muro e una porta anonima costituiscono l’ingresso alla chiesa di Santa Prassede, che conduce direttamente alla navata destra di un luogo di indicibile bellezza.

    Santa Prassede – Interno.

    Questa straordinaria testimonianza dell’ecclesia romana dell’Alto Medioevo si annuncia con un protiro a due colonne e timpano nella stretta e buia via di San Martino ai Monti, che è una parte dell’antica via Suburra. Vicina alla chiesa è pure l’alta casa – ogni secolo l’aggiunta di un piano – dove visse il secentesco pittore bolognese Domenico Zampieri, detto Domenichino.
    Pur rimaneggiata, la chiesa conserva il suo splendore di linee e colori: mosaici del secolo IX, pitture del XVI, cassettoni policromi del soffitto, bellissimo pavimento rifatto alla maniera dei Cosmati.
    E’ vero che si entra da un ingresso laterale, ma conviene portarsi subito al fondo della chiesa dove si apre un quadrato cortile che fece parte della navata principale della basilica paleocristiana e che divenne atrio nel rifacimento generale dell’edificio curato da papa Pasquale I nel secolo IX. La semplice facciata in mattoni è proprio quella che disegnò il papa Pasquale I e qui si trovano le colonne superstiti che probabilmente facevano parte della basilica sorta nel V secolo dopo Cristo e vi si apre uno scuro voltone che corrisponde all’ingresso principale.
    La tradizione vuole che proprio qui, dove oggi sorge la chiesa, la martire Prassede raccogliesse il sangue dei martiri caduti per la fede, in un pozzo. Il luogo è oggi indicato da una rota, un grosso disco, di porfido rosso, incastonato nel pavimento in stile cosmatesco. Questo pozzo cadeva nella estesa proprietà della famiglia di Prassede, e oggi gli studiosi tendono a collocare la casa di famiglia vera e propria in corrispondenza della vicina chiesa dedicata a Santa Pudenziana.

    Santa Pudenziana raccoglie il sangue dei martiri.

    La chiesa dedicata a santa Prassede ha origini molto antiche. E’ attestato che attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore sorsero molte chiese, tra cui, come riportato da una lapide del 491, un titulus Pudentis, temine con cui si indica il fatto che la casa del senatore cristiano Pudente, che si convertì tra i primi al cristianesimo grazie a San Pietro, fosse stata, in tutto o in parte, trasformata in luogo di culto cristiano. Sempre la tradizione vuole che, proprio qui trovasse ospitalità San Pietro, e che fu proprio quest’ultimo a somministrare il battesimo alle due figlie di Pudente: Prudenziana e Prassede.
    Pudente subì il martirio sotto Nerone, e, in seguito a ciò, Prassede e Pudenziana, con il consenso di Papa Pio I, fecero costruire, 142 – 145, un battistero per i nuovi cristiani all’interno della loro proprietà di famiglia. Le due sorelle, Pudenziana e Prassede, operarono, quindi, durante la persecuzione di Antonino Pio, e fu proprio questa loro attività a causare il loro martirio. Alla morte di Pudenziana, Prassede utilizzò il patrimonio della sua famiglia per costruire una chiesa sub titulo Praxedis. Nascose molti cristiani perseguitati, quando questi, furono scoperti e martirizzati, raccolse i corpi per seppellirli nel cimitero di Priscilla, sulla Via Salaria, dove anche lei trovò sepoltura insieme alla sorella e al padre. Il Liber pontificalis ci informa che papa Adriano I verso il 780 rinnovò completamente ciò che restava del titulus Praxedis.

    Il pavimento in stile cosmatesco della chiesa di Santa Pudenziana.

    La chiesa attuale venne completamente ricostruita nell’822 da papa Pasquale I, in occasione della traslazione dei resti di duemila martiri dalle catacombe, ormai definitivamente esposte alle impunite incursioni saracene nella campagna romana.
    Una scalinata portava all’atrio; qui si alzava la semplice facciata romanica quale ci appare oggi, salvo l’aggiunta dell’equilibrato portale collocato nel 1560 da san Carlo Borromeo, titolare della basilica.
    L’interno conserva sostanzialmente la foggia della chiesa del secolo IX, con le tre navate basilicali divise da antiche colonne di granito che reggono un architrave di spoglio, con l’arcone trionfale e l’abside luccicante di mosaici. Coppie di pilastri intercalati alle colonne sorreggono tre grandi archi trasversali aggiunti per rinforzo nel secolo XII e irrobustiti nel XVI, mentre sulle pareti della navata mediana grandi pannelli manieristici dal festoso colore raccontano le storie della Passione.
    Interessante è il pavimento in stile cosmatesco, realizzato nel corso di restauri condotti da Antonio Muñoz nel 1917. La fredda levigatezza del marmo segato a macchina e l’estrema precisione dei bordi delle pietruzze denunciano l’opera moderna, che è comunque di ottimo gusto per quanto attiene al disegno e alla scelta dei colori.

    Arcone dell’abside di Santa Praseede.

    Nel Settecento, il cardinale Ludovico Pico della Mirandola fece trasformare e ampliare il presbiterio occupando lo spazio del transetto e portando avanti l’ingresso della “confessione”. Questa ha nel fondo un antico affresco della Madonna Regina fra le Sante Prassede e Pudenziana, e un paliotto cosmatesco; un corridoio d’accesso è affiancato da quattro bellissimi sarcofagi strigilati e sovrapposti a coppie, contenenti reliquie di martiri, uno è dedicato alle spoglie delle due sorelle martiri. Una scritta racconta come qui Giovan Battista De Rossi, il padre dell’archeologia cristiana, avvertì l’ispirazione a dedicarsi al recupero dei cimiteri sotterranei.
    Dai due lati della confessione si sale al livello del presbiterio mediante ampie scale con gradini in splendido marmo rosso antico, tanto apprezzato che, al tempo del Dipartimento del Tevere, si era progettato di asportarlo per utilizzarlo a Parigi nel trono di Napoleone.
    Nel presbiterio si notano le due transenne laterali che reggono le cantorie, costruite da tre colonne ciascuna, il cui fusto è suddiviso in rocchi da corone d’acanto. Tutta la sistemazione del presbiterio è settecentesca, come lo è il mosso baldacchino di Carlo Fontana, che riutilizzò le quattro colonne di porfido di quello originario.
    Nell’abside, gli apostoli Pietro e Paolo presentano le due sorelle al Cristo dominante al centro, mentre Pasquale I offre il modellino della chiesa. L’intera composizione è ispirata da quella dell’abside dei Santi Cosma e Damiano.

    Giulio Bargellini in Santa Prassede.

    In basso, con il motivo del fiume Giordano, c’è una teoria di pecorelle. Nell’arco absidale una serie di “seniori” dell’Apocalisse tendono all’Agnello mistico le loro corone di gloria. Nell’arco trionfale torme di eletti sullo sfondo dei cieli sono accolti dagli angeli nella Città celeste.
    Tuttavia le più alte emozioni sono riservate dalla Cappella di San Zenone detta anche Giardino del Paradiso che Pasquale I eresse a metà della navata destra come mausoleo della madre Teodora: si tratta della più significativa testimonianza della cultura artistica bizantina che sia rimasta a Roma, come documento della lunga fase di predominio politico e culturale dell’Oriente.
    Introduce alla cappella un arco con decorazione musiva cui si sovrappongono due colonne di granito nero sorreggenti un meraviglioso architrave. Su di esso poggia una grande e pregevole urna funeraria.

    Cappella di San Zenone – Soffitto.

    L’interno è degno del nome “Paradiso” che si dà alla cappella. Idealmente poggiando su quattro colonne collocate negli angoli del piccolo vano quadrato, quattro angeli in mosaico con le braccia alzate reggono al centro della volta tutta d’oro un tondo col volto di Cristo. Altri mosaici sono nelle lunette e sull’altare dove è collocata l’antica immagine di Santa Maria liberaci dalle pene dell’inferno. Molto interessante è il pavimento, coevo alla costruzione della cappella e quindi esempio di transizione tra l’antico opus sectile marmoreum e i lavori che i marmorari romani cominciarono ad eseguire nel secolo XI.
    In una attigua piccola cappella, viene conservata la colonna detta della Flagellazione, un piccolo tronco di diaspro sanguigno che il cardinale Giovanni Colonna portò da Gerusalemme nel 1223. In un’altra cappella, pure vicina a quella di San Zenone, si trova una bella tomba quattrocentesca della scuola di Andrea Bregno; in un pilastro di fronte è il primo monumento funebre realizzato dal giovanissimo Gian Lorenzo Bernini.
    Interessanti sono le Cappelle Borromeo e Olgiati che si aprono nella navata di sinistra. In fondo alla navata destra, tombe e marmi della chiesa preesistente. In sagrestia, belle tele di cui una Flagellazione già attribuita a Giulio Romano e una impressionante Deposizione di Giordano De Vecchi.

    Roma, 2 febbario 2019

  3. Palazzo della Cancelleria Apostolica: i tribunali della Santa Sede.

    Sede storica della Cancelleria Apostolica, ancora oggi il Palazzo della Cancelleria accoglie i tribunali della Santa Sede: la Penitenzieria, la

    Palazzo della Cancelleria. Si ringrazia RomaSparita.

    Segnatura e la Rota Romana. Progettato tra il 1486 e il 1496 è a tutt’oggi di proprietà esclusiva della Sede Apostolica e pertanto gode delle immunità riconosciute alle Ambasciate Estere in quanto zona extraterritoriale della Santa Sede.
    È considerato dagli storici dell’arte e dell’architettura il massimo esempio di reggia cardinalizia, sede della corte di influenti principi della Chiesa. Ritenuto nel passato il capolavoro del Bramante, la critica storica tende negli ultimi anni ad attribuirlo ad Andrea Bregno, lasciando al Bramante il merito del perfetto cortile e della chiesa di San Lorenzo in Damaso inglobata nella costruzione. Un fatto senza precendenti a Roma: la fusione di Palazzo e «chiesa palatina».

    Chiostro del Bramante – Palazzo della Cancelleria.

    Il palazzo va comunque considerato il capolavoro del mecenatismo della discendenza di Sisto IV della Rovere: realizzato dal nipote, cardinale Raffaele Riario, che vi profuse ogni sua risorsa – anche vincite al gioco, si dice – dovette certamente molto anche all’altro nipote, Giulio II della Rovere, il cui stemma è sul palazzo e il cui pontificato terminò al completamento di esso.
    In una prima fase la fabbrica doveva avere una mole limitata in quanto palazzo del cardinale titolare di San Lorenzo in Damaso, adiacente alla chiesa e con una torre angolare, sul modello di Palazzo Venezia. Un progetto più ambizioso di palazzo con quattro torri fu elaborato forse intorno al 1488 – 1489 e comunque entro il 1495: l’antica chiesa di San Lorenzo in Damaso fu demolita, ricostruita più a sinistra e inglobata in un colossale blocco edilizio trapezoidale; al suo posto veniva edificato il cortile. La parte retrostante, verso il giardino, fu completato dopo il 1511 per l’elezione del Riario a Episcopus Ostiensis.

    Sala Regia – Palazzo della Cancelleria.

    Un ruolo importantissimo fu svolto dal Riario che gli permise di essere al corrente delle più attuali tendenze culturali e delle più moderne iniziative edilizie e di conoscerne gli operatori, architetti e artisti. Le forti tangenze col Palazzo Ducale di Urbino vengono spiegate col soggiorno del Riario ad Urbino nel 1480 e con l’intervento di Baccio Pontelli. Molti studiosi ritengono che il cardinale affidasse il programma edilizio ad un vero e proprio collegio di architetti, del quale poterono far parte personalità emergenti come Giuliano da Sangallo o Antonio da Sangallo il vecchio.
    E ad Andrea Bregno, il nuovo “Policleto”, esecutore di Palazzo della Cancelleria. A lui, che assunse un ruolo dominante nell’ultimo quarantennio del Quattrocento, è stata attribuita l’ideazione del parametro scultoreo delle facciate, e in particolare i due balconi su via del Pellegrino con le iscrizioni “HOC OPUS” e “SIC PERPETUO” relative ai due motti scelti dal cardinale Riario. Alcuni studiosi sostengono poi anche

    Soffitto della Sala dei Cento Giorni – Giorgio Vasari.

    l’intervento di Bramante, il quale, secondo Vasari, si sarebbe trovato “con altri eccellenti architettori alla resoluzione di gran parte del palazzo e della chiesa di San Lorenzo”. Il linguaggio bramantesco è stato rilevato nell’impostazione generale, nella scansione degli ordini e nel cornicione.
    Grazie all’intervento dei maggiori architetti e artisti dell’epoca, oggi del Palazzo si ammira la pacata armonia della facciata, la cui lunghezza è equilibrata dai due avancorpi appena accennati, il cortile, assoluto capodopera del genere, lo scalone, un portale quattrocentesco che si trova nel primo loggiato, la Sala Riaria, o Aula Magna, il Salone detto “Dei Cento Giorni” perché il Vasari, che lo decorò con illustrazioni dei “Fatti della vita di Paolo III Farnese” ebbe a vantarsi di aver compiuto l’opera in soli cento giorni. “E si vede”, commentò Michelangelo.
    L’appartamento cardinalizio sempre al piano nobile ha belle decorazioni di Perin del Vaga. Nell’edificio si trova anche un salone ad uso del teatrino creato dal cardinale Pietro Ottoboni, Ne è notevole il soffitto decorato secondo il gusto di Filippo Juvara. Nella seconda metà del Seicento, il palazzo era infatti divenuto un centro fervido di vita teatrale e musicale dove si esibirono i maggiori artisti del secolo, a cominciare da Arcangelo

    Sala dei Cento Giorni – Giorgio Vasari.

    Corelli. Nel sotterraneo del palazzo ci sono avanzi di un sepolcro romano del primo secolo avanti Cristo – eretto per il generale cesariano Hirzio – e un mitreo.
    Nel 1517 il palazzo fu confiscato al Riario, per aver partecipato alla congiura contro Leone X e passò al cardinale Giuliano de’ Medici il quale vi svolse le funzioni di vice-cancelliere della Santa Chiesa. Salito questi al papato, la Cancelleria rimase nel palazzo, dove risiede tuttora, con l’avallo, prima, della legge delle Guarentigie,1871, e poi dei Patti Lateranensi,1929.
    Ebbero transitoria sede nel palazzo, il Tribunale della Repubblica Romana, 1789 – 1799, la Corte Imperiale Napoleonica, 1810, il Parlamento Romano, 1848, l’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, 1849. Pellegrino Rossi, esponente del governo liberale di Pio IX, venne assassinato nell’atrio, a seguito di un complotto, il 25 novembre 1848.
    Sulla stessa piazza della Cancelleria e sul fianco destro del palazzo, ove ora corre Corso Vittorio, erano le case dei Galli che ospitarono il giovane Michelangelo alla sua prima venuta a Roma.

    Sala dei Cento Giorni – Giorgio Vasari.

    Il fianco sinistro del palazzo segue l’andamento un po’ curvilineo di via del Pellegrino, riordinata nel 1497 da Alessandro VI a continuazione dei programmi urbanistici delineati da Sisto IV. Il lato destro, con avancorpi più rilevati e nel quale sembra maggiormente si scorgere l’impronta bramantesca, è stato valorizzato dall’apertura, verso il 1880, di Corso Vittorio. Di quell’epoca è anche un generale restauro del palazzo ad opera del Vespignani. Grandi restauri all’ala destra del palazzo vennero eseguiti durante il pontificato di Pio XII per rimediare ai gravi danni arrecati dall’incendio del 31 dicembre 1939 che aveva provocato il crollo del soffitto di San Lorenzo in Damaso e del sovrastante pavimento della Sala dei cento giorni.

    Roma, 13 gennaio 2019

  4. La Roma delle antiche Confraternite. La chiesa di San Marcello al Corso e l’Oratorio del Santissimo Crocifisso.

    La chiesa di San Marcello al Corso, ovvero di San Marcello in Via Lata, è una delle prime chiese cristiane a Roma. La prima notizia che si ha della sua esistenza risale al 418.

    San Marcello al Corso.

    Il 29 dicembre 418, infatti, il prefetto di Roma Simmaco, scriveva all’imperatore Onorio per informarlo che in questa chiesa era avvenuta l’elezione del papa Bonifacio I, mentre nella basilica lateranense era avvenuta l’elezione dell’antipapa Eulialo.
    Nel Liber Pontificalis e nella Passio Marcelli il titulus della chiesa è legato a Marcello I, perseguitato da Massenzio e condannato a compiere i lavori più umili nelle stalle del catabulum, ovvero nella stazione di posta imperiale che sorgeva proprio dove oggi si trova la chiesa. Le stazioni di posta nella Roma antica si trovavano lungo le vie principali e questa che sorgeva lungo la via Lata, ovvero il tratto cittadino della via Flaminia, accoglieva il traffico proveniente al Nord e diretto in città. Da qui si partiva per dirigersi al Nord, dove Nord non era solo Rimini e Milano. Presso questa stazione di posta non solo salivano e scendevano i passeggeri, che avevano anche la possibilità di rifocillarsi e dormire, ma venivano cambiati anche i cavalli e i postiglioni. Essendo una delle stazioni di posta più importanti dell’intero sistema viario dell’impero, c’era sempre tantissimo lavoro e la morte di Marcello I avvenne per sfinimento.
    L’antica chiesa aveva un impianto basilicale e quindi un orientamento opposto a quello attuale: con l’ingresso a oriente, verso il Quirinale e l’abside a occidente, verso la Via Lata, oggi Via del Corso. Dal 1368 la chiesa è affidata all’Ordine dei Servi di Maria.

    San Filippo Bernizzi Rifiuta La Tiara – Antonio Raggi.

    La chiesa che oggi si può visitare fu interamente ricostruita a partire dal 1519. Dopo un incendio che nella notte del 22 maggio la distrusse completamente, infatti, papa Leone X, con una lettera dell’8 ottobre, incaricò Jacopo Sansovino di realizzare il nuovo edificio di culto. Dell’antica chiesa si salvò solo un crocefisso di legno. Nel corso della riedificazione venne cambiato l’orientamento della chiesa. Alla riedificazione lavorarono molti architetti e artisti. Oltre a Jacopo Sansovino che elaborò il progetto, si ricorda Nanni di Baccio Bigio, collaboratore di Michelangelo e Annibale Lippi, figlio di Baccio Bigio, che realizzò l’abside.
    La facciata attuale barocca è opera di Carlo Fontana, e abbina alla tipica movimentazione architettonica del periodo un tondo in stucco, sorretto da due angeli, opera di Antonio Raggi che raffigura “San Filippo Benizzi che rinuncia alla tiara”.
    L’interno è a pianta rettangolare, a navata centrale su cui si aprono cinque cappelle per lato. Tra queste la quarta cappella a destra è la Cappella del Crocefisso, che conserva proprio quel crocefisso ligneo che si salvò dall’incendio del 22 maggio 1519. Proprio per questo evento miracoloso il Crocefisso sarà portato più volte in processione e ad esso si attribuirà anche il prodigio di aver fermato la peste del 1522. In questa occasione la volontà del popolo di portare in processione il Crocefisso fu così forte che superò anche il divieto delle autorità, che per impedire lo sviluppo dell’ulteriore contagio avevano vietato qualsiasi assembramento di persone. Il Crocefisso venne quindi prelevato dal cortile del convento dei Servi di Maria, dove era stato sistemato temporaneamente, e portato in processione per le vie di Roma verso la Basilica di San Pietro. La processione durò 16 giorni dal 4 al 20 agosto del 1522. Man mano che la processione procedeva e i giorni passavano la peste regrediva. Ogni quartiere che veniva toccato dalla processione chiedeva che il Crocefisso potesse rimanere più a lungo. Quando il 20 agosto il Crocefisso rientrò a San Marcello la peste era cessata.

    San Marcello al Corso

    A far data da questo anno e per questo prodigio nascerà l’Arciconfraternita del Crocefisso. Approvata nel 1526 da papa Clemente VII, istituzionalmente si dedicava all’assistenza e alla carità ai poveri e ai pellegrini.
    Inizialmente l’Arciconfraternita si riuniva presso il Crocefisso ligneo nella cappella a lui dedicata nella chiesa di San Marcello, ma presto lo spazio si rivelò troppo ristretto e si decise per la costruzione di un nuovo edificio nei pressi della chiesa. Così Ranuccio Farnese nel 1562 incaricò Giacomo della Porta di costruire l’Oratorio del Crocefisso. L’edificio fu terminato nel 1568 per volere del cardinale Alessandro Farnese.
    L’Arciconfraternita organizzava le processioni del Giovedì Santo durante le quali il Crocefisso ligneo veniva portato in San Pietro. La processione si dipanava attraverso le stesse strade percorse dal Crocefisso durante il 1522 quando avvenne il prodigio della scacciata della peste da Roma. La processione non aveva solo il compito di ricordare il prodigio, ma aveva anche un valore bene augurale: essa infatti allontanava ogni male dalla città.
    La tradizione delle molte processioni svoltesi la tradizione popolare ha trasmesso il racconto di quella del 1650 che fu effettuata durante il Giubileo. In questa occasione i cavalli s’imbizzarrirono, terrorizzando i partecipanti. E così cinque cardinali, l’ambasciatore di Spagna, gli oltre cento flagellanti, i musicisti del coro e coloro che procedevano con i lumi accesi fuggirono a gambe levate, accompagnati dalle risate del popolo che assisteva alla scena.
    A partire dal 1600 in occasione dell’Anno Santo il Crocefisso effettuava la sua processione fino a San Pietro, dove veniva esposto all’adorazione dei fedeli. Questi eventi sono ricordati dal fatto che sul retro della Croce venivano incisi i nomi dei vari Pontefici che indicevano l’Anno Santo.

    San Marcello al Corso.

    La tradizione ricorda pure un altro episodio legato, questo, alla processione dell’Anno Santo del 1900, quando il sindaco Ernesto Nathan rese quasi impossibili le condizioni per cui questo rito si compisse. La processione infatti, per disposizione della giunta capitolina, si sarebbe dovuta svolgere all’alba, il Crocefisso avrebbe dovuto essere trasportato adagiato su un carro e coperto da un drappo rosso, e le preghiere avrebbero dovuto essere recitate a bassa voce. Per cercare di aggirare queste difficoltà il papa Leone XIII mandò la sua carrozza a prendere il Crocefisso, che potè così essere trasportato in Basilica.
    Nel tardo Cinquecento l’Oratorio cominciò ad avere un ruolo centrale nella produzione di musica sacra ma anche delle relative esecuzioni, ad esempio nel periodo della Quaresima e per la festa della Croce, quando queste esecuzioni venivano assegnate a maestri di musica importanti tra cui Pierluigi da Palestrina, Alessandro Stradella e Alessandro Scarlatti.
    La denominazione di Oratorio nasce però dal fatto che qui vi furono eseguiti i così detti “oratori”, ovvero musiche di genere spirituale, su tema biblico e dal carattere drammatico, eseguite in forma di concerto, senza rappresentazione scenica e personaggi in costume, e per questo motivo diversi dai drammi sacri. L’oratorio era in genere composto per solisti, coro e orchestra, a volte con il contributo di un narratore.
    L’oratorio è tutt’oggi sede dell’Oratorio Musicale Romano, un centro prestigioso di elaborazione di musica sacra.

    Oratorio del Santissimo Crocefisso. Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella”.

    Del tipo di musica che veniva eseguita intorno alla metà del Seicento nell’Oratorio del Santissimo Crocefisso abbiamo la descrizione fatta da André Maugars, un violinista francese a servizio del cardinale Richelieu, che si trovò a Roma tra il 1638 e il 1639: “Vi è però un altro genere di musica che non è affatto in uso in Francia e che proprio per questa ragione merita bene che ve ne faccia una descrizione particolare: si chiama stile recitativo. Il migliore che io abbia inteso fu nell’oratorio di S. Marcello, dove si trova una compagnia dei fratelli del Santo Crocifisso, formata dai più grandi signori, che di conseguenza ha la possibilità di mettere insieme tutto ciò che l’Italia produce di più raro; e di fatto i musici più eccellenti si fanno un punto d’onore di venirvi e i migliori compositori brigano per avere l’onore di farvi sentire le loro composizioni e si sforzano di farvi apparire ciò che di meglio hanno allo studio. Questa musica ammirevole e incantevole si fa solo di venerdì durante la Quaresima dalle tre alle sei. La chiesa è grande appena quanto la Sainte-Chapelle di Parigi; nel fondo vi è una cantoria su archi, spaziosa, con un organo di media grandezza, molto dolce e molto adatto [ad accompagnare] le voci. Ai due lati della chiesa vi sono ancora due altre cantorie piccole, dove si trovano i virtuosi più eccellenti della musica strumentale. Le voci cominciano con un salmo in forma di mottetto e poi tutti gli strumenti eseguono una sinfonia molto bella. Dopo, le voci cantano una storia dell’Antico Testamento in forma di commedia spirituale, come quella di Susanna, di Giuditta e Oloferne, o di Davide e Golia. Ogni cantore rappresenta un personaggio della storia e esprime perfettamente la forza delle parole. Dopo di che uno dei più celebri predicatori propone l’esortazione, finita la quale, la musica recita il Vangelo del giorno, come la storia della Samaritana, della Cananea, di Lazzaro, della Maddalena o della Passione di Nostro Signore, e i cantanti imitano perfettamente i personaggi di cui narra l’evangelista”.

    Oratorio del Santissimo Crocefisso. Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella”.

    Maugars parla dell’organo dell’Oratorio. Il primo venne costruito nel 1582 da Francesco Palmieri di Fivizzano. Più volte restaurato nel 1744 venne sostituito da un nuovo strumento costruito da Johannes Conrad Werle e posto sulla cantoria in controfacciata.
    Sebbene l’Oratorio subì una profonda spoliazione durante l’occupazione francese a Roma, 1798 – 1799, l’aula unica si presenta ancora oggi maestosamente affrescata con un articolato e complesso programma iconografico elaborato da Tommaso de’ Cavalieri scultore, letterato e amico di Michelangelo. I temi trattati sono le “Storie della Croce” e le “Storie della Confraternita”; questi sono stati eseguiti da artisti manieristi diversi tra cui il Pomarancio.
    Sull’altare maggiore è collocato un crocefisso che è copia di quello conservato nella Cappella del Crocefisso nella vicina chiesa di San Marcello.

    Roma, 3 gennaio 2019.