Racconti

La tomba di Pietro in Vaticano: una straordinaria vicenda

di Pina Baglioni

In previsione di una visita agli scavi della necropoli persistente sotto la Basilica di San Pietro e al sepolcro originario dell’apostolo Pietro, pubblichiamo l’avvincente storia della identificazione della tomba e dei resti di Pietro e dell’interpretazione dei graffiti lasciati da chi si recava a pregare sulla tomba.

Dopo il martirio, avvenuto nell’anno 64 nei giardini di Nerone presso il Vaticano,

La Crocifissione di san Pietro - Caravaggio

La Crocifissione di san Pietro – Caravaggio

l’apostolo Pietro era stato sepolto in un’umile tomba scavata nella nuda terra, presso un luogo che segnava il limite settentrionale dei medesimi giardini.
Il primo accenno alla sepoltura del Principe degli Apostoli risale a un certo Gaio, diacono secondo quanto riportato da Eusebio da Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica.
Eusebio riferisce che Gaio, durante il pontificato di Zefirino (199-217), era entrato in polemica con Proclo, un eretico montanista che, volendo sminuire l’importanza della Chiesa di Roma, ostentava la presenza in Asia Minore di importanti tombe d’età apostolica. «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli (Pietro e Paolo)» aveva replicato Gaio. «Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa Chiesa».


Le parole di Gaio lasciavano intendere che sulla primitiva tomba terragna era stata edificata, nel II secolo, una piccola edicola funeraria, definita poi dagli studiosi come “trofeo di Gaio”. Nel secondo decennio del IV secolo l’imperatore Costantino, per favorire i seguaci di Cristo, aveva voluto racchiudere il sepolcro di Pietro all’interno di un monumento in muratura, per poi edificare, nel 320, la grandiosa basilica il cui fulcro andava a coincidere proprio col monumento che racchiudeva la sepoltura dell’apostolo.

Successione temporale e spaziale degli altari dedicati a Pietro e posti sulla sua tomba.

Successione temporale e spaziale degli altari dedicati a Pietro e posti sulla sua tomba.

Da quel momento in poi, il sepolcro di Pietro sarà il centro di tutto quello che nel corso dei secoli gli si svilupperà sopra e attorno.
Sopra l’altare costantiniano, Gregorio Magno, all’inizio del VII secolo, ne fece realizzare un altro. Nel 1123 fu poi la volta dell’altare di Callisto II che inglobava quello gregoriano. Fino a Clemente VIII che, nel 1594, vi sovrappose l’altare della Confessione che ancora oggi ammiriamo. Senza dimenticare che otto decenni prima, Giulio II aveva ordinato la demolizione dell’antica basilica per costruirne una nuova.
Anche in quell’occasione, fu rigorosamente rispettata la centralità del sepolcro di Pietro: il culmine della cupola di Michelangelo, per esempio, si trova esattamente sopra di esso.
La serie ininterrotta di altari e il luogo della sepoltura di Pietro vennero alla luce negli anni che vanno dal 1939 al 1949. Quando, per volontà di Pio XII, ebbero inizio gli scavi archeologici al di sotto dell’altare maggiore della Basilica Vaticana. Era la prima volta nella storia della Chiesa che un pontefice prendeva una tale iniziativa.
Nonostante le resistenze all’impresa emerse sia in Vaticano che fuori, Pio XII decise di andare dritto per la propria strada. Dopo secoli di polemiche e dubbi sulla reale venuta di Pietro a Roma e sul suo martirio, mosse da certi ambienti protestanti e da alcuni agguerriti circoli anticlericali, papa Pacelli ruppe gli indugi e chiamò per lo scavo quattro studiosi di archeologia, architettura e storia dell’arte sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas, segretario della Reverenda Fabbrica di San Pietro.
Nel corso dei lavori, più volte interrotti per via della guerra, fu inizialmente rinvenuto un parallelepipedo alto circa tre metri, fasciato di marmo e porfido: si trattava del monumento costantiniano.
Scavando al di sotto di esso, gli archeologi si trovarono poi davanti agli occhi una piccola edicola appoggiata a un muro dipinto di rosso, in corrispondenza di una nicchia.
Non solo. Sul pavimento davanti alla nicchia, una tomba scavata nella nuda terra.
Gli archeologi avevano trovato quello che una tradizione ininterrotta aveva sempre affermato per quasi due millenni.
La tomba di Pietro, l’umile pescatore di Galilea a cui il Signore aveva affidato la Chiesa.
E le reliquie?
Al cospetto del papa, gli studiosi affermarono di aver raggiunto senz’altro il luogo del sepolcro dell’Apostolo. Delle reliquie, però, nessuna traccia. La tomba era vuota.
Il muro su cui era poggiato il trofeo di Gaio, definito dagli studiosi “muro g”,

Il "muro g"

Il “muro g” e il sepolcro foderato di marmo

era ricoperto da un groviglio di graffiti risultati a loro incomprensibili. Dunque, neanche il nome di Pietro era stato ritrovato.
Nel dare l’annuncio del ritrovamento, in un radiomessaggio a conclusione dell’anno giubilare del 1950, Pio XII disse: «Nei sotterranei della basilica Vaticana ci sono i fondamenti della nostra fede. La conclusione finale dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la tomba del Principe degli apostoli è stata ritrovata».
Una ben strana tomba, in realtà: senza reliquie e senza un solo graffito che invocasse il nome di Pietro.
La storia, però, non era finita.
Nel febbraio del 1951, padre Antonio Ferrua, uno dei quattro archeologi dello scavo vaticano, decise di dare alle stampe un suo articolo sul ritrovamento della tomba di Pietro. L’articolo venne pubblicato dal quotidiano romano Il Messaggero e dalla Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti.
A leggere con attenzione l’articolo si trovò, per puro caso, l’epigrafista e archeologa di fama internazionale Margherita Guarducci, amica carissima di Pio XII.
La Guarducci, appena scorsa la pagina, non potè fare a meno di trasalire: l’articolo era corredato da un disegno dell’edicola funeraria del II secolo (il trofeo di Gaio), ma il fatto strano era che sul lato destro del muro lo studioso aveva disegnato una scritta greca: “Petros eni” (Pietro è qui).
A quel punto, l’insigne docente di epigrafia greca chiese direttamente a Pio XII di poter osservare da vicino quei graffiti, che gli archeologi vaticani affermavano essere indecifrabili. E il papa accettò. Nel maggio nel 1952 la studiosa scese per la prima volta nella zona degli scavi.
Chi scrive ha avuto la grande fortuna e l’onore dell’amicizia di Margherita Guarducci, ed ha potuto quindi raccogliere, nella casa della studiosa di epigrafi nel cuore di Roma con vista sulla cupola michelangiolesca, direttamente il suo racconto dei giorni interi passati in ginocchio, al buio, davanti a quel “muro g” dei sotterranei vaticani, armata solo di una piccola torcia elettrica per far luce su quella ragnatela di graffiti.
Ma tanta tenacia, alla fine, portò frutto. La studiosa riconobbe in modo inequivocabile il nome di Pietro ripetuto più volte e spesso unito ai nomi di Cristo e di Maria. Come pure le lettere “PE” unite a formare una chiave, simbolo di Pietro, poiché Pietro era l’apostolo a cui il Signore aveva consegnato le chiavi del Regno dei Cieli. Tra tutti quei graffiti però, ne mancava uno: il famoso “Petros eni”.
Intanto nel corso di una delle sue indagini, la Guarducci si accorse che dentro il “muro g” era stato ricavato un loculo foderato di marmo. Più tardi, la studiosa venne a sapere da Giovanni Segoni,

La cassetta di legno che conserva i resti dell'apostolo Pietro e i tessuti nei quali essi furono avvolti.

La cassetta di legno che conserva i resti dell’apostolo Pietro e i tessuti nei quali essi furono avvolti.

un operaio della Fabbrica di San Pietro che, durante i lavori di scavo dentro quel loculo, era stato trovato un numero consistente di ossa umane. E che tutto quel “materiale” era stato riposto in una cassetta di legno e lasciato in uno dei locali delle Grotte Vaticane. Ma da chi? E come mai nella relazione finale degli scavi, neanche un accenno a quei resti?
Impegnatissima a decifrare i suoi amati graffiti, Margherita Guarducci non prestò molta attenzione al contenuto della cassetta. Si limitò a consegnarlo alla Fabbrica in attesa che fossero analizzate da vari esperti.
All’inizio degli anni Sessanta cominciarono ad arrivare i risultati delle analisi: le reliquie rintracciate dalla Guarducci risultarono pertinenti a un solo uomo, di corporatura robusta, morto in età avanzata. Erano incrostate di terra e mostravano di essere avvolte in un panno di lana colorato di porpora e intessuto d’oro; rappresentavano frammenti di tutte le ossa del corpo ad esclusione di quelle dei piedi. Insomma, Margherita Guarducci aveva ritrovato e identificato le reliquie di Pietro. Quelle stesse reliquie che Costantino, nel IV secolo, aveva voluto trasferire dall’umile tomba terragna in un loculo scavato nel muro dei graffiti, a cui, a sua volta, era addossato il “trofeo di Gaio” del II secolo.
Il 26 giugno di quello stesso anno, tre giorni prima della festa dei santi Pietro e Paolo, Paolo VI, ricollegandosi alle parole pronunciate da Pio XII, volle annunciare, a sorpresa, il ritrovamento e il riconoscimento dei resti di Pietro.


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