prima pagina

  1. Villa Torlonia e l’Orlando Furioso

    La storia di Villa Torlonia ha inizio nel 1673 quando la vigna, posta ad un miglio esatto da Porta Pia, venne acquistata dal cardinale Benedetto Pamphilj, un ecclesiastico davvero singolare, un mecenate che vantò, come ospiti, tra gli altri, musicisti quali Arcangelo Corelli e Georg Friedrich

    Villa Torlonia in un'incisione del 1842

    Villa Torlonia in un’incisione del 1842

    Handel. Quest’ultimo, in virtù del profondo rapporto d’amicizia che li legava, musicò per lui alcune Cantate i cui testi vennero scritti dal cardinale Pamphilj stesso. Ma non fu, questo, un caso isolato.
    Benedetto Pamphilj, infatti, amante della musica colta, scrisse anche libretti di opere poi musicate da Alessandro Scarlatti.
    Per esercitare al meglio queste sue prerogative di mecenate ed amante della musica, al fine di organizzare eventi mondani, il cardinale acquistò la proprietà nota con il nome di Vignola, posta poco distante da Porta Pia, ma molto meno estesa dell’attuale Villa Torlonia. In seguito, chiamò Giacomo Moraldo, Mattia de’ Rossi e Carlo Fontana affinché questi si occupassero della sua sistemazione e la rendessero un luogo ameno ed adatto a ricevimenti.
    Il casino principale, che si trovava nella posizione esatta in cui oggi sorge il Casino Nobile, aveva sale dipinte con paesaggi, uccelli e fiori. Era arredato con eleganza e aveva una loggia impreziosita da statue.
    Non sono molte le notizie che si possono reperire relative a questo periodo di storia della proprietà, delle sue architetture e dei suoi arredi. Ancora meno sono quelle riguardanti i cambiamenti avvenuti all’interno della villa quando i Colonna ne diventano i successivi proprietari.

    Casina delle Civette - Villa Torlonia

    Casina delle Civette – Villa Torlonia

    Testimonianze più complete, si hanno, invece, a partire dal 1797 quando la proprietà venne acquistata da Giovanni Torlonia, un personaggio che oggi verrebbe definito un “self made man”, il capostipite di quella che diventerà una delle famiglie nobiliari più ricche della città di Roma.
    La famiglia Torlonia manterrà, a far data dal 1797, la proprietà della villa per circa due secoli, periodo in cui, per mezzo dell’acquisizione di nuove proprietà, questa divenne più estesa, anche più di come la vediamo oggi. Tra i grandi architetti chiamati a dare un nuovo aspetto alla proprietà, appare Giuseppe Valadier, probabilmente uno dei pochi in grado di interpretare i desideri e le ambizioni di una famiglia che ormai poteva vantare principi e non solo marchesi.
    La villa di oggi, nell’interezza del parco e di una gran parte degli edifici, appare al visitatore dopo lunghi e attenti restauri resisi necessari dopo i danni prodotti dall’occupazione degli Alleati, tra il 1944 e il 1947, e il successivo abbandono in cui la villa cadde e rimase fino al 1978 quando il Comune di Roma l’acquistò dietro la pressione esercitata dai cittadini.

    La Serra Moresca - Villa Torlonia

    La Serra Moresca – Villa Torlonia

    I restauri non hanno certamente potuto restituirne l’originaria integrità, ma hanno permesso, comunque, di leggerne i complessi significati e le architetture del Parco e dei suoi edifici.
    La realizzazione di ciò che oggi è possibile vedere, almeno in parte, comincia nel 1828, quando la villa diviene proprietà di Alessandro Torlonia che chiama gli architetti Giovan Battista Caretti e Giuseppe Jappelli: il primo ad occuparsi della parte nord del giardino e degli edifici che qui insistevano o che qui dovevano essere realizzati, il secondo, vero architetto del verde, a realizzare un giardino all’inglese come quello che lo stesso Alessandro Torlonia aveva potuto ammirare quando era stato ospite di lord Hamilton a Pain’s Hill, giardino realizzato da William Kent, considerato l’architetto inglese iniziatore della moda del giardino paesistico inglese.
    Sia Caretti che Jappelli avranno un rapporto burrascoso con Alessandro Torlonia e con la nobiltà romana tutta, e, sebbene per motivi diversi, entrambi interromperanno il loro lavoro prima del suo completamento. Ciò nonostante, la parte dei rispettivi progetti effettivamente realizzata risulterà di tale dirompente bellezza da fare della Villa Torlonia un unicum mai imitato a Roma.

    La Capanna Svizzera - Incisione del 1842 - Villa Torlonia

    La Capanna Svizzera – Incisione del 1842 – Villa Torlonia

    In particolare, Jappelli, decide di realizzare nel settore sud del giardino una scenografia orientale, uno degli elementi che doveva essere presente in ogni giardino all’inglese. Tra le diverse possibilità e modelli “orientali” a cui potersi ispirare – cinese, indiano, giapponese, ecc… – Jappelli scelse di rifarsi al mondo arabo ed in particolare di farsi guidare dal testo dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. La narrazione inizia con quella che oggi conosciamo come la Casina della Civette, completamente irriconoscibile nella sua trasformazione in piccolo villaggio medievale risalente al 1920, ma inizialmente realizzata in forma di Capanna Svizzera/romitorio, che nella narrazione jappelliana diviene l’abitazione dell’Eremita, che Ludovico Ariosto pone su uno scoglio solitario nel Mediterraneo.
    Si passa poi ad una struttura non ancora restaurata: una grotta che svolgeva la funzione della tomba di Merlino nel romanzo cavalleresco. Il campo di Agramante, riassunto dall’insieme della Serra e della Torre Moresca (restaurate entrambe ma purtroppo non disponibili alla visita) e il Campo Cristiano, che corrisponde al Campo dei Tornei. Completavano la narrazione altri due ambienti: la selva e l’isola di Alcina.
    La selva, ovvero il boschetto in cui Angelica incontra Sacripante, oggi non è altro che un’area del parco dove la vegetazione ha preso il sopravvento e che risulta impossibile da attraversare,

    La Serra Moresca - Villa Torlonia

    La Serra Moresca – Villa Torlonia

    contraddicendo l’originaria impostazione di Jannelli, che aveva immaginato questa parte del parco ricca si di una vegetazione intricata, che suggeriva uno spazio in cui perdersi per poi ritrovarsi.
    L’isola di Alcina è invece andata completamente perduta. Il lago nella quale essa era stata realizzata fu infatti prosciugato alla fine dell’Ottocento e oggi al suo posto troviamo una piana alberata.
    La visita, che vuole anche ricordare il cinquecentenario della prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, è un’occasione per far rivivere, in parte con la fantasia, in parte con la lettura dei brani che hanno ispirato Jappelli, i luoghi come l’architetto li aveva realizzati, a partire proprio dalla Casina delle Civette.

  2. Foro Romano. L’età tardo-antica e medievale

    All’inizio del IV secolo Roma si era trasformata dal piccolo agglomerato di villaggi collinari di mille anni prima in una vasta e irregolare metropoli.

    La Curia Iulia – Foro Romano .

    Il cristianesimo aveva messo radici nella città fin dall’anno 60 circa, al tempo della predicazione di Pietro e della di Paolo ai Romani, e verso la fine del II secolo o la metà del III fioriva una stabile e prospera comunità cristiana. Ma la vera storia della Roma cristiana ebbe inizio il 28 ottobre del 312, quando Costantino sconfisse il co-imperatore Massenzio, conquistando così, insieme con Roma, il dominio di tutta la parte occidentale dell’impero. L’importanza politica di Roma era diminuita, giacché con la riforma amministrativa di Diocleziano, tra il 285 e il 305, i quattro co-imperatori della tetrarchia avevano adottato nuove residenze imperiali: nessun imperatore risiedeva ormai a Roma se non per breve tempo, e i principali dicasteri civili e militari si erano trasferiti in gran parte nei nuovi centri amministrativi o viaggiavano al seguito delle corti itineranti della tetrarchia. A Roma era rimasto il Senato, ma in pratica il suo ruolo si limitava a funzioni onorifiche e cerimoniali.
    Nel Foro romano fu innalzata, dopo l’incendio del 283, la nuova aula del Senato, la Curia Senatus, visibile ancora oggi; dirimpetto fu quasi

    La Basilica di Massenzio – Foro Romano – Oggi.

    completamente ricostruita la basilica Giulia, danneggiata dallo stesso incendio. Furono riparati i rostra, ovvero la tribuna per gli oratori di fronte alla Curia, e sullo sfondo furono erette cinque colonne onorarie dedicate a Diocleziano e ai suoi imperiali colleghi. Ancora più straordinaria fu l’attività edilizia di Massenzio, sia per la brevità del regno, sei anni dal 306 al 312, sia per la quantità e grandiosità delle opere: ristrutturò dalle fondamenta il tempio di Venere e Roma costruito da Adriano all’estremità orientale del Foro, di fronte al Colosseo. Accanto a esso costruì nel giro di tre anni la Basilica Nova, una gigantesca aula con volte a crociera sopra la navata e, su ciascun lato di questa, tre enormi nicchie con volte a botte, i cui avanzi sono ancora oggi i più imponenti del Foro. L’edificio, terminato e in parte modificato da Costantino, fu detto comunemente Basilica Costantini. Poco lontano, una struttura più antica, oggi corrispondente alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano, fu completamente rimaneggiata e divisa in due da una parete absidata: la metà anteriore fu rivestita di marmi e verso il Foro le fu

    La Basilica di Massenzio – Giovan Battista Piranesi.

    anteposta una rotonda a cupola, oggi detta impropriamente tempio di Romolo, con facciata ricurva ornata da colonne. Quest’edificio, completato da Costantino, era forse la sala di udienza del praefectus urbi. Quest’area era diventata, col passare dei secoli, una grandiosa mostra di architettura di Stato, dove romani, provinciali e stranieri potevano ammirare templi, palazzi, edifici amministrativi, basiliche, portici: enormi costruzioni di marmi o di finto marmo, con capitelli dorati, archi trionfali e statue onorarie che nel complesso dovevano creare un effetto molto simile a quello che oggi produce il Vittoriano.
    Quando nel 312 entrò in Roma, Costantino pensava probabilmente di trasformare la città nella capitale cristiana di un impero cristiano. In realtà, col passare del tempo l’impero divenne, sotto la sua guida, sempre più cristiano, ma Roma, capeggiata dall’aristocrazia senatoriale, gli oppose resistenza, e i grandiosi edifici chiesastici eretti come monumenti alla nuova fede non raggiunsero mai il cuore della città. Sappiamo infatti che le basiliche di San Pietro, il piccolo sacrario sulla tomba di San Paolo, San

    Basilica di Massenzio – Du Perec.

    Giovanni in Laterano, San Lorenzo fuori le Mura furono costruite da Costantino ben lontane dal centro della città, proprio per non turbare una cittadinanza ancora fortemente pagana.
    Nel 326 un’aperta rottura col Senato provocò la partenza definitiva da Roma di Costantino, che si cercò una nuova capitale e nel 330 fondò, in Oriente, Costantinopoli. Roma gli era venuta meno. La Nuova Roma nata sul Bosforo divenne così ciò che la vecchia Roma non era ancora disposta a essere.
    Specialmente il Foro era rimasto una riserva del paganesimo. Fra il 337 e il 341 fu eretta lungo la via Sacra una serie di statue, tra cui alcune di divinità antiche; le poderose colonne del tempio di Saturno furono ricomposte intorno al 400 e dotate di rozzi capitelli ionici, di un tipo in disuso a Roma da trecento anni; infine, all’altra estremità del Foro fu restaurato nel 394 il tempio di Vesta.
    Per tutto il IV secolo Roma continuò a presentare ai visitatori un volto

    Santa Maria Antiqua – Foro Romano.

    essenzialmente classico, secolare e pagano. La visita dell’imperatore Costanzo II nel 357 comprendeva il Foro Romano, «abbagliante con la sfilata delle sue meraviglie».
    Parallelamente, nel IV secolo gli imperatori emanarono una serie di decreti diretti alla progressiva soppressione dei culti e dei santuari pagani: nel 346 fu proibito il culto pubblico agli dei, dieci anni dopo furono chiusi i templi. Mentre si cercava di eliminare il paganesimo, restavano comunque i suoi monumenti, a ricordo del grande passato e a perenne memoria dell’antica potenza della città e dell’impero. Ancora nel 530, durante l’assedio gotico, Roma era ancora popolata di statue. Al Foro, il santuario di Giano conteneva un simulacro bronzeo del dio alto sette piedi e mezzo.
    Ma nel 395, a Roma, il paganesimo fu definitivamente soppresso. E mentre la città diventava sempre più cristiana, la Chiesa si romanizzava, assumendo un atteggiamento positivo verso il passato dell’Urbe.
    Nel 410 su Roma si abbatté una catastrofe: in agosto, una banda di Visigoti capeggiati da Alarico invase la città e la saccheggiò per tre giorni. L’imperatore d’Occidente, dal 395 vi era un impero occidentale distinto da quello Orientale, rimase inerte a Ravenna. E Roma restò indifesa. Sul Foro Romano furono danneggiati la basilica Emilia e l’adiacente Secretarium del Senato.

    Santa Maria Antiqua – Foro Romano.

    Nei decenni successivi, la città continuò ad andare in rovina e a essere preda di ogni nemico. E anche la struttura fisica si andava deteriorando. I materiali preziosi, trafugati dai templi, venivano reimpiegati, nella maggior parte, nella costruzione delle chiese. Dal disfacimento materiale di Roma a partire dal IV secolo sorse la Roma cristiana. Ma la città, nonostante tutto, esisteva ancora: le mura, riparate dai Bizantini, erano ancora in piedi; le vie principali e le piazze erano tenute sgombre. E nel 608 la colonna eretta nel Foro romano in onore dell’imperatore Foca fu innalzata su una pavimentazione risalente al III secolo. La gente scendeva ancora al Foro per fare acquisti, tra le merci erano compresi gli schiavi, e per scambiarsi notizie, mentre nel Foro Traiano, rimasto in piedi fino al VII secolo, si tenevano adunanze letterarie.
    Quando il 3 settembre del 509 sale al soglio pontificio Gregorio detto poi “Magno”, l’unico responsabile politico, militare, amministrativo, assistenziale di Roma era ormai la Chiesa. Di conseguenza, anche in campo edilizio e urbanistico, la responsabilità ricadde sul papa, vista la totale negligenza del governo bizantino.
    Tra le opere più importanti, un edificio pubblico situato dalla parte opposta del Foro, sotto la pendice Nord-occidentale del Palatino, fu trasformato

    Santa Maria Liberatrice – Foro Romano.

    nella chiesa chiamata, dal 635, Santa Maria Antiqua. Eretta nel tardo I secolo come aula di rappresentanza, intorno alla metà del VI secolo doveva essere diventata un corpo di guardia a protezione della rampa che conduceva ai palazzi in cima al colle, sede del governatore bizantino. La sala – come si addiceva al viceré dell’imperatore cristianissimo – era decorata con pitture murali di soggetto sacro che si richiamavano ai mosaici giustinianei nella cosiddetta Porta di Bronzo, ossia nel corpo di guardia del palazzo imperiale di Costantinopoli. Nei due secoli seguenti l’aula trasformata in chiesa fu decorata a più riprese con nuove pitture murali, finché nell’847 l’edificio fu sepolto da una frana; i beni e i diritti della chiesa furono allora trasferiti a Santa Maria Nova, posta all’estremità orientale del Foro, dall’altra parte della Via Sacra.
    Gli avanzi di Santa Maria Antiqua, scoperti nel 1702, furono scavati e identificati nel 1900: le decorazioni murali sovrapposte, rimaste per tanti secoli inaccessibili e quindi intatte, fanno di questa chiesa un vero museo della pittura romana del VII-VIII secolo, in cui sono conservate le tracce del reciproco influsso che si esercitò allora tra elementi occidentali e orientali.
    Fra il 625 e il 638 la Curia Senatus al Foro romano fu trasformata da papa Onorio I nella chiesa di Sant’Adriano; e l’Alta Corte di giustizia del Senato, divenne un oratorio dedicato a Santa Martina.

    Roma, 18 gennaio 2020

  3. Canova: eterna bellezza

    Antonio Canova e la città di Roma: è questo il tema della mostra-evento di Palazzo Braschi, con oltre 170 opere e prestigiosi prestiti da importanti

    Le Tre Grazie – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Musei e collezioni italiane e straniere. L’esposizione racconta in 13 sezioni l’arte canoviana e il contesto che lo scultore trovò giungendo nell’Urbe nel 1779. Attraverso ricercate soluzioni illuminotecniche, lungo il percorso espositivo è rievocata la calda atmosfera a lume di torcia con cui l’artista, a fine Settecento, mostrava le proprie opere agli ospiti, di notte, nell’atelier di via delle Colonnette. A definire la trama del racconto, importanti prestiti provenienti, fra l’altro, dall’Ermitage di San Pietroburgo, i Musei Vaticani, la Gypsotheca e Museo Antonio Canova di Possagno, il Museo Civico di Bassano del Grappa, i Musei Capitolini, il Museo Correr di Venezia, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, le Accademie di Belle Arti di Bologna, di Carrara e di Ravenna, l’Accademia Nazionale di San Luca, il Musée des Augustins di Tolosa, i Musei di Strada Nuova-Palazzo Tursi di Genova, il Museo Civico di Asolo. Dai tesori dei Musei Capitolini a quelli dei Musei Vaticani, dalle raccolte dei Farnese e dei Ludovisi ai marmi inseriti nel contesto urbano dell’epoca, furono tantissime le opere che l’artista – rapito dal loro fascino – studiò minuziosamente, rendendole testimoni e protagoniste del suo stretto rapporto con la città.

    Amore e Psiche – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    In mostra si ripercorrono gli itinerari compiuti dallo scultore alla scoperta di Roma, sin dal suo primo soggiorno. Sorprendenti, ad esempio, le sue parole di ammirazione nei confronti del gruppo di Apollo e Dafne di Bernini, visto a Villa Borghese, e riportate nei suoi Quaderni di viaggio.
    È inoltre possibile approfondire, attraverso la presentazione di disegni, bozzetti, modellini e gessi, anche di grande formato, il lavoro dell’artista per i grandi Monumenti funerari di Clemente XIV e di Clemente XIII, e per il Monumento agli ultimi Stuart; spicca tra essi, per la grande qualità esecutiva, il marmo del Genio funerario Rezzonico concesso in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo e il modellino del Monumento Stuart della Gypsotheca di Possagno. La mostra affronta anche il rapporto tra lo scultore e la letteratura del suo tempo: una piccola sezione è dedicata alla relazione tra Canova e Alfieri, la cui tragedia Antigone, andata in scena a Roma nel 1782, presenta più di uno spunto di riflessione in rapporto alla rivoluzione figurativa canoviana. Fieramente antigiacobino, Canova abbandonò Roma all’epoca della Repubblica alla fine del Settecento per rifugiarsi nella natia Possagno. Dipinti, sculture, disegni e incisioni documentano in mostra quel momento che vide la fine provvisoria del potere temporale del papato con l’esilio di Pio VI Braschi. Canova fu

    La Danzatrice – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    incaricato di scolpire la statua di Pio VI, da collocare inizialmente sotto l’altare della Confessione nella Basilica Vaticana, quindi spostata nelle Grotte Vaticane: in mostra – all’interno del palazzo edificato a fine Settecento proprio per i nipoti di Papa Braschi – è possibile ammirare un modellino per il monumento. Nell’ultima sala della mostra, uno dei marmi più straordinari di Canova: la Danzatrice con le mani sui fianchi, proveniente da San Pietroburgo. Gira sulla sua base, come Canova desiderava, per di più in un ambiente rivestito di specchi. Si ripete il mito di Pigmalione, innamorato della sua statua, Galatea, che si anima: da marmo diventa carne. Il percorso espositivo è arricchito da inedite installazioni multimediali appositamente progettate. Attraverso trenta fotografie di Mimmo Jodice che ritraggono i marmi di Antonio Canova, il pubblico può ammirare le opere dello scultore attraverso lo sguardo di uno dei più grandi maestri della fotografia. Jodice è riuscito a offrirne una rilettura del tutto inedita e sorprendente, creando una serie di immagini che si sono da subito imposte come una delle più emozionanti espressioni della fotografia contemporanea. Le immagini sono una vera e propria mostra nella mostra, offrendo un’occasione unica per accostarsi allo scultore guidati dalla

    Antonio Canova – Particolare – Mimmo Jodice.

    creatività di un grande artista di oggi. Poi, grazie all’apporto di Magister, un innovativo format espositivo che si prefigge l’obiettivo di promuovere la bellezza attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, rivitalizzandolo in chiave contemporanea, si può ammirare una riproduzione in scala reale del gruppo scultoreo di Amore e Psiche giacente di Antonio Canova. A partire da una scansione 3d del gesso preparatorio della scultura oggi esposta al Louvre di Parigi, un robot ha scolpito incessantemente per 270 ore un blocco di marmo bianco di Carrara di 10 tonnellate. L’installazione di grande potenza emotiva, ideata da Magister e realizzata in collaborazione con Robotor, apre una nuova sfida sui paradigmi della riproducibilità delle opere d’arte: la riproduzione è infatti da leggersi come forma di rispetto per il pensiero dell’artista ed esprime l’aspirazione contemporanea a valorizzarne ancora una volta l’estro creativo.
    Ad accompagnare l’installazione, un documentario sulla realizzazione

    Paride – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    dell’opera e un racconto video della fiaba di Amore e Psiche di Apuleio, in un percorso tra spettacolo e approfondimento, un racconto sui testi di Giuliano Pisani, con la voce di Adriano Giannini e la musica originale del violoncellista Giovanni Sollima.
    Ma chi è stato Antonio Canova? Senza dubbio il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo e l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come

    Venere – Antonio Canova – Mimmo Jodice

    oggetti puri ed incontaminati secondo i principi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: Teseo sul Minotauro, Amore e Psiche, Ercole e Lica, Le Tre Grazie; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria.
    Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche sono scoperti e immediati: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di Teseo sul Minotauro. Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papi

    Damosseno – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria – in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide – e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepolcri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di

    Orfeo – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie.

    Roma, 12 gennaio 2020

  4. Il fascino dell’antico e il linguaggio dei marmi nel Medioevo

    Il pavimento cosmatesco è una particolare tipologia di decorazione pavimentale emersa in Italia tra il XII e il XIII secolo grazie all’attività di

    Santa Maria degli Angeli -Roma.

    alcuni marmorari romani che operarono in varie botteghe e appartenenti alla famiglia dei Cosmati.
    Cosmati è in realtà un termine generico dovuta al fatto che i marmorari romani indicavano se stessi come Cosma o Cosmatus firmando le loro opere.
    Successivamente si sono potuti identificare due artisti diversi che appartenevano a due famiglie: Cosma di Jacopo di Lorenzo, attivo almeno dal 1210 al 1231, e Cosma di Pietro Mellini, attivo a partire almeno dal 1264.
    Cosma di Jacopo di Lorenzo è uno dei marmorai più noti della famiglia di Tebaldo Marmorario che è il capostipite di questa famiglia, attivo tra il 1100 e il 1150, e che raccolse le più grandi committenze da parte del papato. E’ noto che il figlio di Tebaldo si chiamava Lorenzo, a cui seguì appunto Jacopo e quindi Cosma. Anche i figli di Cosma proseguirono l’attività della famiglia.

    Santa Maria in Cosmedin – Pavimento della Navata Centrale.

    Questa famiglia diede avvio a una vera e propria moda nella decorazione pavimentale che incontrò il gusto e soddisfece il desiderio dei papi che quindi autorizzarono il prelievo dei marmi e delle altre pietre necessarie alla realizzazione di questa particolare decorazione musiva dai vari edifici romani.
    Il desiderio di riutilizzare i marmi antichi non si limitò però agli anni del XII e XIII secolo, ma fu una pratica che si estese anche nei secoli successivi, uno degli esempi più eclatanti è forse quello della cappella Mignanelli dentro Santa Maria della Pace decorata interamente con i marmi provenienti dal tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, nella seconda metà del 1600.
    Accanto alla bottega dei Cosmati perciò sorsero anche botteghe di marmorari imitatori di questo stile che nel tempo venne utilizzato per realizzare non più solo pavimenti ma anche altari, leggii, pulpiti, colonne tortili, fonti battesimali, ecc…
    Bisogna poi ricordare almeno l’esperienza del Magister Paulus a sua volta discepolo di un certo Magister Christianus attivo già nella metà del X secolo.

    Basilica di San Clemente – Roma.

    Il Magister Paulus diede vita a una sua bottega insieme ai suoi figli, attiva immediatamente prima di quella dei Cosmati. Al Magister Paulus sono attribuiti i pavimenti della chiesa di San Clemente, quelli dei Santi Quattro Coronati, della cattedra di San Lorenzo in Lucina e della basilica di San Pietro in Vaticano.
    Per la similitudine nello stile si pensa che siano stati realizzati dal Magister Paulus e dalla sua bottega anche i pavimenti delle chiese di Santa Maria in Cosmedin, di San Benedetto in Piscinula e di altre.
    I pavimenti cosmateschi sono dei coloratissimi tappeti marmorei la cui ricchezza, varietà e policromia contrasta con la semplicità dell’architettura delle basiliche e delle chiese romaniche in cui essi sono utilizzati.
    Per la realizzazione di questi pavimenti furono impiegate tessere o piccoli tasselli di marmo, granito o ceramica, cavati da antichi edifici romani,

    Santa Maria Maggiore – Civita Castellana.

    disposti a creare motivi geometrici di connessione tra inserti più grandi, rotondi, detti rotae spesso di porfido rosso.
    Il riuso di elementi marmorei, graniti, porfidi o ceramici permetteva di coniugare bellezza e risparmio: comprare nuovo materiale infatti era certamente più dispendioso che non utilizzare quello già così tanto abbondante presente in città. D’altra parte alcune cave di marmo come quelle di serpentino e di porfido rosso si erano già esaurite in epoca romana e sarebbe stato dunque impossibile per papi e cardinali approvvigionarsene se non sottraendole a edifici romani.
    Una delle caratteristiche della decorazione pavimentale “cosmatesca” è la sua simmetria, anche se più correttamente si dovrebbe parlare di simmetrie al plurale, poiché con accurate analisi anche di tipo matematico si è messo in evidenza il fatto che le simmetrie utilizzate dai diversi Cosmati sono più di una.
    Quando si osserva un pavimento cosmatesco si può distinguere sempre un elemento lineare che corre lungo la navata, attraversa il coro e giunge

    San Benedetto in Piscinula – Trastevere.

    all’altare. Questo perché il pavimento non aveva solo un valore decorativo, ma veniva utilizzato anche per segnare dei percorsi all’interno della chiesa e della basilica, percorsi che potevano essere seguiti in processione o da singoli.
    Il pavimento così veniva ad assumere due diversi significati e definiva lo spazio della navata a due livelli: il motivo lineare infatti definisce un vero e proprio corridoio che assume anche il valore simbolico di passaggio, esemplificativo del pellegrinaggio sulla Terra che il cristiano compie prima della sua ascensione nel regno dei cieli. Il motivo lineare centrale ha quindi valore di percorso salvifico, valore che nelle architetture dei secoli successivi sarà assunto da altri elementi: ad esempio la decorazione a spirale di angeli in epoca barocca.
    In genere la navata centrale è occupata da un elemento lineare che può essere composto da uno o dalla combinazione di due motivi principali: la guilloche, in cui una serie di tondi, il cui centro è una rota, si connettono attraverso fasce intrecciate, e il quinconce, una composizione di quattro tondi disposti intorno a un quinto collegati tra loro da bande intrecciate.

    Duomo – Terracina.

    Le fasce sinuose che collegano tra loro i tondi appaiono a chi entri e cammini sul pavimento come continue e intrecciate, piuttosto che semplicemente giustapposte.
    Tutto ciò che è ai lati della navata centrale è semplice riempimento dello spazio e viene realizzato per mezzo di una disposizione regolare di tessere colorate di materiali vari.
    Il pavimento cosmatesco diventa un elemento architettonico fondamentale nell’organizzazione e nella gerarchizzazione dello spazio della basilica paleocristiana dal momento in cui la basilica romana, che aveva due absidi sui lati maggiori e due ingressi sui lati minori, viene presa come modello architettonico per il tempio cristiano, ma viene semplificata eliminando una delle due absidi e ponendo l’ingresso sul lato opposto dell’abside rimasto. Era a questo punto necessario introdurre un asse di simmetria che restituisse equilibrio all’edificio e il motivo curvilineo del pavimento cosmatesco della navata centrale ha proprio il ruolo di introdurre di nuovo la simmetria speculare che era andata persa nella semplificazione della pianta basilicale. La simmetria speculare è poi rafforzata dal fatto che ai lati dell’elemento decorativo del pavimento della navata sono disposti specularmente dei rettangoli.

    San Crisogono – Trastevere.

    Spesso non vengono però realizzate simmetrie speculari semplici, ma queste possono essere più o meno complesse e diverse per l’elemento che decora la navata centrale e quello che fa da riempimento.
    Un altro aspetto che caratterizza i pavimenti cosmateschi è la varietà di forme che si possono riconoscere al suo interno. Le così dette rotae, ovvero i tondi che sono al centro delle guilloche e delle quinconce sono fette di colonne. Poi si possono distinguere cerchi, triangoli, quadrati, rettangoli, rombi, esagoni, ottagoni e la così detta vesica piscis, cioè un ovale appuntito che viene a formarsi all’intersezione di due circonferenze.
    Questa organizzazione geometrica dei Cosmati nasceva spesso da motivi di ordine pratico.
    La tecnica utilizzata era quella di partire dal marmo bianco all’interno del quale venivano scavati gli alloggiamenti della misura e della forma esatta per accogliere poi i frammenti colorati, queste tracce erano poi riempite con un fondo cementizio nel quale venivano incastrati i frammenti in maniera tale che non sporgessero dal marmo stesso. Si partiva per questo

    Cappella di San Luigi – Cattedrale di Monreale

    “gioco ad incastro” dai tasselli più grandi, quindi venivano riempiti gli spazi vuoti, ricavando in essi gli alloggiamenti per le restanti tessere, andando sempre in ordine di grandezza dal più grande al più piccolo.
    Osservando un pavimento cosmatesco si può così notare che la simmetria riguarda solo, o principalmente la forma e la dimensione, ma molto raramente il colore, e questo corrisponde a una particolare caratteristica dell’effetto simmetria che appunto rende trascurabile il colore, tanto che essa potrebbe essere colta e il pavimento apprezzato per la sua bellezza anche se fosse realizzato tutto con tessere bianche e nere.
    I Cosmati quindi rispondevano a una esigenza ottica precisa in cui l’importante è riempire lo spazio con una certa forma piuttosto che con un dato colore e questo introduce nei pavimenti cosmateschi un altro livello di simmetria che è detta simmetria di similitudine o simmetria frattale. Questa esigenza ottica fa si che gli spazi restati vuoti vengano riempiti via via con forme simili di scala più piccola. Il risultato può essere un motivo che localmente è simile a se stesso.
    Questa esigenza ottica spiega anche perché una delle figure più frequentemente utilizzate è il triangolo; per esempio lo si trova nelle aree comprese tra i margini circolari di guilloche e quinconce e i bordi rettilinei che li circondano. Questi spazi curvi hanno una forma che ricorda molto quella di un triangolo e spesso accolgono un triangolo grande, mentre lo spazio intorno viene riempito con triangoli più piccoli fino a quando tutto lo spazio disponibile è completato.

    Roma, 5 gennaio 2020