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Stanley Kubrick – L’Odissea di un grande visionario – 3/4

di Paolo Ricciardi

In occasione dei venti anni dalla morte del grande regista Stanley Kubrick pubblichiamo, in quattro puntate, con vero piacere un testo di Paolo Ricciardi che attraversa e analizza, sebbene brevemente, tutta l’opera, ma forse sarebbe più corretto dire l’epopea, di Kubrick.
Qui si può leggere la prima parte del testo.
Qui la seconda.

Barry Lyndon è un film che assume un ruolo particolarmente importante nella filmografia di Kubrick perché costituisce il momento di maggiore libertà e distanza dai temi sociali, filosofici e politici che a Kubrick sono sempre stati attribuiti: violenza, politica, sesso.

Barry Lyndon – Stanley Kubrick – 1975.

E’ un film fortemente visivo, talmente ricco di immagini e riferimenti estetici (dovute alle vastissime ricerche condotte dall’autore) da farne la più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto.
La storia viene continuamente ridotta a quadro, a immagine da mostrare, da guardare: una grande tessitura visiva iniziata in esterni, nella profondità di campi lunghissimi e nella fredda luce del nord, dove le figure si stagliano nette sugli orizzonti sconfinati, e chiusa nel fondo nero di una carrozza.
La vita del protagonista è un percorso non solo narrativo ma soprattutto iconico e raffigurativo. Predomina una visione frontale dello spazio, una prospettiva sicura che conduce a uno spazio scenico geometrico. In un certo senso si tratta di inquadrature che corrispondono alla visione rinascimentale, che danno quindi un realismo elaborato e costruito simbolicamente, secondo calcoli proporzionali.

La passione per il Settecento, prima che in Barry Lyndon, si era affacciata nel cinema di Kubrick, in Orizzonti di gloria: il film comincia con la vista del perfido generale Broulard al quartiere generale di Mireau, che è situato in un grande castello settecentesco.

Orizzonti di Gloria – Stanley Kubrick – 1957

A esso corrisponde all’esterno la trincea che, nella visita del generale Mireau, è ripresa con un lungo e ininterrotto carrello all’indietro, uno dei tanti corridoi che caratterizzano il cinema di Kubrick.
Trincea e palazzo quindi; i due ambienti si alternano continuamente perché geograficamente vicini ma simbolicamente lontani. In un interno neoclassico si decide della vita degli uomini, in un corridoio-trincea i soldati aspettano lo scontro col nemico. Orizzonti di gloria termina su un piccolo palcoscenico improvvisato in una bettola, dove i soldati aspettano l’ora della partenza ascoltando una canzone tedesca dalla voce di una spaurita giovane prigioniera.
Sempre su un palcoscenico, ma di un abbandonato teatro, ancora una volta, settecentesco, si svolge lo scontro tra i Drughi e la banda di Billy Boy, in Arancia meccanica, su di un altro palcoscenico, questa volta di un teatro a pianta circolare in ferro e cemento, Alex, il protagonista del film, dimostra la sua guarigione dopo la “cura Ludovico”.
La realtà diventa una recita e la recita diventa espressione della verità; una verità che in un teatro in rovina, segnato quindi dal passaggio del tempo, si dimostra ancor più efficace perché meglio conosce l’uomo.

Arancia Meccanica – Malcolm McDowell nei panni di Alex – Stanley Kubrick – 1971.

La storia di Alex non è una storia personale, ma quella di un gruppo, di una generazione o forse una vera e propria storia dell’uomo. É un film fortemente influenzato dei fermenti culturali e storici del suo tempo ma contemporaneamente è lontano da ogni lettura strettamente sociologica.
Secondo Kubrick, Alex è il nostro inconscio, e quindi il film diventa quindi un viaggio nella mente vista nella sua duplicità: l’io e l’es, l’occhio naturale e l’occhio truccato.
Gli ambienti e i luoghi in cui si svolgono le “gesta” di Alex e del suo gruppo sono legati strettamente ed esclusivamente all’azione di cui sono scena. Il Korova Milk Bar è il luogo della prima sequenza del film, qui Alex si presenta parlando da una voce fuoricampo. Dal primo piano di Alex, che immobile guarda verso di noi, la macchina da presa inizia una lunga carrellata indietro scoprendo prima tutto il gruppo dei Drughi, tutti vestiti di bianco e con bombetta blu, seduti contro uno sfondo nero, poi, ai lati due bianchi manichini-tavolini. Via via che la carrellata indietro prosegue, scopriamo che quei tavolini compongono una doppia serie, perfettamente allineata, al centro della quale, sul fondo, rimane il gruppo dei Drughi.
Questo parallelepipedo nero è il luogo di ritrovo e socializzazione del gruppo ma anche quello in cui Alex, punendo un compagno che sembra non apprezzare la musica di Beethoven, impone il suo ruolo di capo indiscusso.
Arancia meccanica è un film fortemente claustrofobico, senza vie d’uscita. Numerosi e diversi sono i corridoi di cui Kubrick si serve in questo film. Il primo è quello che porta simbolicamente Alex e i compagni dal Korova Milk Bar al teatro abbandonato scenario dello scontro con la banda rivale;

Arancia Meccanica – STanley Kubrick – 1971.

attraversandolo (in realtà si tratta di un sottopassaggio) Alex e gli altri picchiano selvaggiamente un barbone ubriaco che aveva chiesto loro qualche spicciolo. La luce che giunge dall’ingresso del tunnel trasforma i personaggi in ombre malvagie e inquietanti: nulla ci si può aspettare da loro se non violenza e terrore.
Il secondo corridoio che ci viene proposto è quello della casa dei genitori di Alex: Alex si sveglia dopo la nottata “ultraviolenta” e lo percorre in mutande fino a che non si accorge che nella stanza da letto dei genitori, che sta tra il minuscolo soggiorno e la sua camera, lo aspetta l’assistente sociale che, informato sui fatti della notte precedente, lo interroga. Il significato di questo corridoio non è del tutto chiaro ma è fortemente in relazione e contrasto con quello successivo, quello che vede Alex passeggiare in un negozio di dischi vestito come un nobiluomo.
Egli percorre un corridoio d’alluminio, stretto e disposto lungo il perimetro del negozio (la macchina da presa lo riprende frontalmente con una lunga carrellata all’indietro); l’espressione del volto e i modi sicuri e quasi gentili convincono due ragazze a seguirlo nel suo appartamento. Un altro corridoio è quello fatto di libri nella biblioteca del carcere che vede Alex e il cappellano conversare in privato e amichevolmente sulla “cura Ludovico”: la sequenza parte con un carrello all’indietro che segue i due personaggi e prosegue bloccandosi in una inquadratura fissa sempre su di loro. I libri ai lati e al centro Alex con il cappellano: la presenza dei libri sembra “ispirare” Alex che trasforma il suo linguaggio e comportamento diventando pacato, riflessivo, dotto e mistico; la sequenza si conclude con i due che citano a memoria la Bibbia e si fanno il segno della croce. Tutti gli spazi del film sono irritanti, offensivi e ipocriti. Non c’è un solo spazio che rincuora: nemmeno quelli del sogno.

Arancia Meccanica – Stanley Kubrick – 1971.

Le architetture qui sono l’espressione dell’ipocrisia degli uomini, della cultura e del potere. Alle luminose e sgargianti architetture del potere intellettuale, culturale e scientifico, si accompagna il grigiore dei luoghi delle istituzioni: l’ufficio di polizia con il suo burocratico anonimato, destinato a ingrandirsi nella sala di accoglienza dei detenuti; la prigione antica e sporca come il teatro abbandonato; la sala cinematografica, in cui Alex viene sottoposto alla “cura”, è il prolungamento e l’ampliamento della prigione, l’imprigionamento dello sguardo e del cervello.
Quello dipinto da Kubrick è insomma un inferno in cui nessuno si salva; il linguaggio di Kubrick è freddo, razionale, che esamina spietatamente le contraddizioni di un mondo in cui la stanza dei bottoni non ha contatto con il mondo.
Questa lontananza del potere era già presente in Orizzonti di gloria, in Spartacus (1960) e nel Dottor Stranamore (1963) e ritornerà in Full Metal Jacket (1987).
Full Metal Jacket è forse il più teatrale di tutti i film di Kubrick, governato da una scenografia fortemente unitaria ma paradossalmente e incomprensibilmente poco rappresentativa, decisamente inverosimile.

Full Metal Jacket – STanley Kubrick – 1987.

Questa scenografia, così apertamente lontana da tutte le possibili immagini del Vietnam, costituisce una sfida al buon senso, carica com’è di estraneità inquietante e nello stesso tempo pervasa da un oscuro senso di familiarità. Molto più credibile, infatti, era la rappresentazione di Michael Cimino (Il cacciatore 1978), di Francis Ford Coppola (Apocalypse Now 1979), o di Oliver Stone (Platoon 1986), con i villaggi di paglia, gli effetti speciali, i trucchi e l’intrico della foresta, in cui il Vietnam veniva ricostruito, ricomposto visivamente, come in tutti gli altri film del genere.
La scelta di Kubrick sta, invece, nella decisione di rappresentare il Vietnam per disuguaglianze. E’ una scelta che si fonda sulla sostituzione di elementi più che la loro ricostruzione; Full Metal Jacket e perciò un film allegorico dove non occorre che le cose si adeguino a quello che devono rappresentare.
Un tale conflitto rafforza la potenza simbolica delle immagini e l’ambiguità diviene assoluta. Questa impostazione produce e scatena nello spettatore una serie infinita di associazioni, tanto che dentro questa guerra ne possiamo racchiudere numerose altre; non è la guerra in Vietnam che si vuol rappresentare ma la guerra. Kubrick cancella così il Vietnam, come cancella il nemico, per cui i marines saranno costretti a fronteggiare solo se stessi.
 La ricerca ostinata della contraddizione e dell’ambiguità è una costante nel cinema di Kubrick e la troviamo ovunque in questo film, a partire da un particolare che si osserva facilmente, tanto poca è l’intenzione di mascherarlo: le scene della libera uscita dei marines nella città amica di Da Nang sono girate dentro lo stesso spazio scenico in cui si svolge poi l’assalto alla città dei vietcong. Da cui si vede chiaramente che le scene di guerra e di pace sono girate nello stesso spazio teatrale: Da Nang e Hue sono la stessa città. Le scene di guerra e quelle in cui un solo cecchino invisibile tiene in scacco l’intero plotone, sono girate in un’officina del gas che Kubrick ha trovato nelle vicinanze di Londra, a Beckton, e che ha avuto ufficialmente il permesso di distruggere.

Full Metal Jacket – Stanley Kubrick – 1987.

Come 2001: Odissea nello spazio è caratterizzato dalla presenza di un elemento geometrico, cioè il cerchio, anche Full Metal Jacket, almeno nella prima parte, rimanda a una precisa geometria: i soldati, i letti, le finestre, il percorso tracciato dal sergente, gli oggetti.
Tutto è molto scarno, la scenografia è essenziale, l’autore vuole portare l’attenzione sui soldati. Eppure, nella sua rarefazione, l’ambiente significa molto, come d’altronde in tutta la filmografia kubrickiana. A differenza, però della ricchezza visiva di Eyes Wide Shut o Barry Lyndon, qui si tratta di una caserma qualsiasi in un posto imprecisato degli Stati Uniti. La composizione geometrica del quadro è orientata in senso verticale, artificio filmico che genera inquietudine. E, più delle colonne, ciò che conta, in tal senso, è la verticalità immobile dei soldati, immobilità che il sergente Hartman è IL SOLO a poter infrangere con un movimento orizzontale (l’unico movimento, d’altronde).
È da notare, d’altronde, che tutti i soldati sono nella loro posizione tipica, sull’attenti: “più che verticali”, verticali in modo eccessivo, innaturale.
Ed è proprio questo uno degli intenti del film: denunciare

Full Metal Jacket – Stanley Kubrick – 1987.

l’INNATURALEZZA dell’educazione militare, un’educazione che vuole imporre un suo ordine ad una sostanza informe e disordinata.
Processo che genererà mostri, siano essi di cinismo (Cow-boy) o di follia omicida-suicida (Palla di Lardo). Da notare anche che, quando Joker riceve il pugno del sergente, si ripiega (naturalmente) su se stesso, in un modo (naturalmente) obliquo, in opposizione netta con la geometria verticale (innaturale) del luogo. Questo contrasto acutizza l’efficacia drammatica del gesto.
D’altronde sarà lo stesso sergente, vero e proprio guardiano dell’ordine, che rimetterà Joker sull’attenti, gridando “Alzati! In piedi!”. La stessa cosa accadrà a Palla di Lardo: il sergente prima lo costringe in posizione obliqua e lo obbliga a strangolarsi, in seguito lo riporta in posizione “più che verticale”, ristabilendo l’ordine del quadro. Innaturali sono anche i colori: la verticalità dei soldati è messa in rilievo da un contrasto tra il verde dello loro uniformi ed il rosso (colore complementare del verde) del pavimento (orizzontale). Si tratta, comunque, di un verde e di un rosso molto tenui, funzionali all’effetto di luci della stanza: al bianco grigiastro delle pareti interne della caserma si contrappone il bianco della luce proveniente dalle finestre.
L’importanza espressiva della fotografia nei film di Kubrick è nota, ma qui, oltre al palese valore simbolico della purezza della luce esteriore che, nei piani a favore dei soldati interrogati dal sergente, crea una sorta di “quadro nel quadro” alle loro spalle.
Ed è un bagliore di libertà, di vita. E anche di innocenza, quell’innocenza giovanile che i soldati hanno perso, tagliata via come i loro capelli nella primissima scena del film. L’intero film, d’altronde, non è altro che un processo di maturazione dei soldati, processo al quale Palla di Lardo non riuscirà a sopravvivere. Ultimo particolare interessante, sempre relativo alla fotografia, è l’analogia tra la luce retrostante Palla di Lardo nel momento in cui si strangola e la luce, alla fine del film, dietro la cecchina vietnamita in azione. Due simboli della follia inumana della guerra, due persone private della loro dignità e diventate macchine da uccisione.

Full Metal Jacket – Il soldato “Palla di Lardo”, Leonard Lawrence, interpretato da Vincent D’Onofrio – Stanley Kubrick – 1987.

Nella caserma non ci sono suoni, tutta l’azione si svolge in un silenzio assoluto, rotto solo dagli ordini del sergente e dal rumore dei suoi passi, amplificati dall’eco della camerata, grazie al quale le parole del sergente risuonano fino a diventare impossibili da non ascoltare, e troppo nette da poter sopportare. Kubrick qui da un saggio sull’importanza del silenzio nel cinema, su come non solo la presenza di musica possa avere un potere espressivo, ma anche e soprattutto la sua assenza.
Anzi, in questo caso la sua presenza avrebbe smorzato l’impatto dell’azione.
Il sergente detta legge anche sul regista, sui movimenti di camera.
La traiettoria tracciata del sergente ha una precisa geometria, che il movimento della macchina da presa deve rispettare. Se, da un lato, questo movimento ha una funzione di accompagnamento, nondimeno ha un forte potere espressivo, aggiungendo a una geometria (il percorso del sergente) un’altra geometria (il percorso del punto di vista), il tutto dentro una terza geometria cioè quella della camerata. Il sergente, in un certo senso, è il vero regista: fino all’intervento autonomo di Joker, è l’unico a poter decidere se fermarsi per interrogare un soldato, per poi ripartire. I campi-controcampi, inoltre, hanno sempre le quinte del secondo interlocutore, i due personaggi sono quasi sempre presenti nello stesso quadro, come se l’autore (o il sergente, secondo questa chiave di lettura) volesse sottolineare la vicinanza opprimente e soffocante del sergente, a livello fisico e visivo.

Full Metal Jacket – Pvt Joker, interpretato da Matthew Modine – Stanley Kubrick – 1987.

E ancora, è sempre il sergente che assegna i nomi ai soldati, ordinando loro ciò che dovranno fare e non fare nel corso del film, ciò che dovranno dire e non dire. Possiamo quindi, alla luce di queste riflessioni, affermare che, nella geometria silenziosa della caserma, il sergente Hartman ha tre poteri, in ambito visivo: suoni, movimenti dei personaggi e movimenti di camera.
La loro presenza o assenza dipendono solo da lui.
Questo ordine verrà rotto solo dal soldato Joker che pronuncia la frase “Sei proprio tu John Wayne? E io chi sarei?”, rompendo quindi il predominio sonoro sin qui stabilito dal sergente, guadagnandosi un primo piano e soprattutto costringendo Hartman a compiere un movimento OBLIQUO.

Roma, 24 giugno 2019


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