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  1. Il genio di Pietro da Cortona e la Cortona di Palazzo Pamphilj

    Scrive lo storico dell’arte Rudolf Wittkover: «Il genio di Pietro Berrettini, chiamato di

    Galleria Cortona – Veduta d’Insieme – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    solito Pietro da Cortona, fu secondo solo a quello del Bernini. Come lui fu architetto, pittore, decoratore e disegnatore di tombe e di sculture, per quanto non scultore egli stesso. I suoi successi in tutti questi campi devono essere collocati fra i più notevoli del XVII secolo. A Bernini e Borromini è stata restituita la posizione eminente a loro dovuta. Non così al Cortona… Invero, il nome del Cortona è il terzo del grande trio di artisti romani del barocco e la sua opera rappresenta un aspetto di questo stile nuovo e assolutamente personale» (Arte e Architettura in Italia 1600-1750, Einaudi 1993, Torino, pp. 533).
    Date le autorevoli premesse dello storico dell’arte tedesco, non c’è dubbio che una delle opere più rappresentative di questo genio del Seicento romano sia la Galleria di Palazzo Pampilj di Piazza Navona, sede dell’Ambasciata del Brasile. Palazzo appartenuto alla famiglia Pamphilj dal 1470 e completamente rinnovata dal cardinal Giovan Battista Pamphilj che, a partire dal 1644, chiamò i più importanti artisti e architetti dell’epoca, quali Bernini e Borromini per progettare l’intero isolato. La facciata, caratterizzata da linee molto sobrie, fu realizzata da Girolamo Rainaldi mentre Borromini fu responsabile del progetto della chiesa, della Sala Palestrina e della Galleria Cortona, affrescata da Pietro da Cortona con le storie di Enea. Prima di allora, l’artista aveva già realizzato per papa Urbano VIII Barberini, il suo maggior sostenitore, gli affreschi raffiguranti le Storie di santa Bibiana, santa Demetra e san Flaviano, per la parete sinistra della navata della chiesa paleocristiana di Santa Bibiana, restaurata in quegli stessi anni da Gian Lorenzo Bernini.
    A introdurre il Berrettini nella cerchia barberiniana fu quasi certamente Marcello Sacchetti, nominato nel 1623 depositario generale e tesoriere segreto della Camera Apostolica. Per lui l’artista stava eseguendo le grandi tele con il Sacrificio di Polissena e il Trionfo di Bacco, Roma, Pinacoteca Capitolina.
    Nel 1628 viene assegnata al Cortona la commissione per la pala d’altare della Cappella del Sacramento in San Pietro, opera in un primo tempo affidata a Guido

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    Reni. La pala, raffigurante la Trinità, una grandiosa macchina di nuvole e di angeli, tuttora in loco ma poco visibile perché parzialmente nascosta dal tabernacolo del Bernini, sarà terminata nel 1631. La cifra pagata, mille scudi, dimostra la posizione raggiunta dall’artista che, solo tre anni dopo, sarà nominato Principe dell’Accademia di San Luca. La commissione della pala d’altare per San Pietro aveva, naturalmente, una grande importanza per la carriera dell’autore. Subito dopo Urbano VIII gli affida la decorazione di alcuni ambienti del nuovo Palazzo Barberini.
    Nel 1633 iniziano i lavori della volta del salone, certamente l’opera più importante del Cortona, il manifesto della nuova pittura barocca, in qualche modo contrapposta al classicismo di Andrea Sacchi. Tra il 1633 e il 1639 Berrettini lavora, con alcune interruzioni, all’immenso soffitto nel quale dovrà affrescare, secondo le precise indicazioni del soggetto dettate dal poeta Francesco Bracciolini, il Trionfo della Divina Provvidenza e il compimento dei suoi fini attraverso il potere spirituale e temporale del papato ai tempi di Urbano VIII. Concluderà quell’opera grandiosa – concepita come una visione unitaria, per essere abbracciata con un unico sguardo – in soli due anni: il 10 dicembre 1639 il Trionfo della Divina Provvidenza, che celebra soprattutto il trionfo dei Barberini, sovrani con potere assoluto, verrà inaugurato da Urbano VIII. Le due distinte personalità del Cortona, pittore sapiente e architetto, si erano riunite per creare quella straordinaria e aerea costruzione di spazi, scene e personaggi che forma la perfetta struttura d’invenzione e realtà del soffitto barberiniano. Qui, tutto ciò che è immaginato come finto è contenuto nei limiti della cornice marmorea, mentre il resto è immaginato come vero, come scrosciante apparizione: cielo, nuvole, rocce, fiamme, alberi, fontane e la folla innumerevole delle figure che scavalcano la cornice. Tra un viaggio a Firenze e l’altro, l’artista lavora al progetto architettonico per la chiesa dei Santi Luca e Martina, sede dell’Accademia di San Luca, progetto al quale il Cortona, in

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    quanto Principe dell’Accademia, si dedica fin dal 1634-1635 e che si conclude nel 1650, e ai diversi interventi pittorici a Santa Maria in Vallicella, la chiesa degli Oratoriani. Qui egli lavora, a più riprese, con uno spirito quasi caritatevole fin dal 1633, quando affresca, in contemporanea con il soffitto Barberini, “con buonissima conditione”, quindi a buon prezzo, la volta della sacrestia, poi, nel decennio successivo, tra il 1647 e il 1651, la cupola, più tardi la tribuna e i pennacchi e, infine, negli ultimi anni della sua vita, tra il 1664 e il 1665, la volta della navata, un intervento di grandi dimensioni che in qualche modo conclude la carriera artistica del Cortona. Dopo il soggiorno fiorentino durato dal 1641 e il 1647 dove realizza, a Palazzo Pitti affreschi alla Sala della Stufa e per altre cinque stanze, le Sale dei Pianeti al primo piano di Palazzo Pitti, Pietro da Cortona torna a Roma dove compra casa in via della Pedacchia, nei pressi del Campidoglio (edificio distrutto alla fine dell’Ottocento per la costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II). Negli anni successivi, tra il 1651 e il 1654, papa Innocenzo X Pamphilj gli commissiona la decorazione della galleria costruita dal Borromini nel palazzo di famiglia a piazza Navona. È questa la prima commissione affidata dal nuovo papa al Berrettini, che era stato il pittore dei Barberini. Il palazzo Pamphilj di piazza Navona a Roma si configurava come un esempio estremamente significativo di cantiere barocco e della vita sociale che vi si svolgeva. Il suo passaggio da palazzo cardinalizio a palazzo papale, le lunghe vicende architettoniche che si conclusero con un unicum straordinario, la Galleria progettata da Francesco Borromini con una posizione inedita rispetto alla pianta, la complessa decorazione che vede una evoluzione del sistema del fregio ad affresco e la realizzazione del capolavoro degli anni Cinquanta di Pietro da Cortona, lo rendono uno dei complessi più interessanti per lo studio del palazzo barocco romano. Diversamente dalla decorazione della volta del salone barberiniano, vero dispiegamento di immagini allegoriche, qui i soggetti prescelti, tratti dall’Eneide e legati all’origine della famiglia Pamphilj, rivelano una forte componente narrativa che inizia con l’arrivo di Enea nel Lazio e giunge fino alla discesa dell’eroe agli inferi. Sui lati brevi della galleria si trovano due eleganti finestre, uniche fonti di luce e, al di sopra, lo stemma di Innocenzo X con il motto latino Sub Umbra Alarum Tua, proteggimi all’ombra delle tue ali. Il disegno dell’ambiente e delle decorazioni in stucco si deve alla mano del Borromini. La decorazione della volta con il Ciclo di Enea fu iniziata da Pietro da Cortona nel 1651 e la concluse nella primavera del 1654, ricevendo un compenso di 3.000 scudi.
    Come luogo privilegiato del palazzo, la galleria doveva essere uno spazio che

    Enea sulla sua nave accompagnato da Nettuno – Galleria Cortona – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    suscitasse meraviglia. Qui il padrone di casa conduceva gli ospiti più raffinati, principi, prelati e intellettuali, e li invitava ad ammirare i suoi capolavori. La galleria doveva essere quindi uno spazio autonomo, edificato allo scopo di stupire l’ospite attraverso le trovate degli artisti di maggior ingegno. E Pietro da Cortona riesce nell’intento: risolve la difficoltà di affrescare uno spazio così lungo suddividendolo in diversi scomparti, e al tempo stesso riesce a fondere insieme le diverse scene, senza creare una cesura tra una e l’altra. La volta risulta formata da un grande riquadro centrale, affiancato da due grandi medaglioni laterali, secondo l’idea del “quadro riportato”. Le cornici degli ovali sono arricchite da ghirlande e sostenute da figure femminili e maschili in finto marmo. Le scene narrate alle estremità risultano prive di cornica e sono collocate sotto un unico cielo che rende fluido l’insieme creando un effetto atmosferico e naturalistico tipico della pittura barocca. Ma, prima di interpretare il tema degli affreschi, va sottolineato che la scelta delle storie cadde sul tema mitologico legato alla figura di Enea perché lo stemma Pamphilj ha al suo interno una colomba bianca. E la colomba era simbolo di Venere, dea dell’amore e madre di Enea, il mitico fondatore di Roma. Era questo, quindi, un motivo sufficiente a ispirare un affresco che avesse come tema centrale alcune vicende tratte dalla storia di Enea.
    Le vicende di Enea cominciano dal lato della volta verso la piazza, dove troviamo il primo grande ovale. Qui si vede Giunone che, giunta in Eolia, patria dei venti, supplica Eolo, riconoscibile dalla corona, affinché scateni venti e tempeste contro l’armata capitanata da Enea che si stava dirigendo verso le coste italiche. La storia continua sul lato destro dove si vede Nettuno, dio dei mari, che, irato, minaccia i venti che hanno reso il mare burrascoso. I venti vengono mandati nei loro anfratti e il mare torna a essere tranquillo e calmo. Nettuno appare assiso sopra un carro trainato da cavalli marini e attorniato da putti, ninfe e tritoni, consueti

    Nettuno sul carro placa i venti – Galleria Cortona – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    accompagnatori del dio dei mari.
    Giunti presso la grande finestra, si nota una medaglia dipinta a chiaroscuro che raffigura Enea, in un bosco, che cerca il ramo d’oro o d’ulivo, da portare in dono a Proserpina. Il ramo avrebbe consentito a Enea di entrare e uscire dagli inferi. Durante la ricerca del ramo gli appaiono due colombe che gli indicano dove trovarlo e poi volano via. Enea, dopo aver trovato il ramo, fa ritorno in Sicilia.
    Sotto la medaglia si vede Enea che, accompagnato dalla Sibilla Cumana, a sinistra, incontra Cerbero, a destra, il cane a tre teste addetto a sorvegliare le porte degli inferi. Il terribile cane viene addormentato dalla Sibilla con un pane di mele affinché non emetta il triplice latrato. Finalmente Enea, entrato nell’aldilà, può vedere l’anima del padre Anchise.
    Continuando in senso orario si vede Enea sulla sua nave, accompagnato da Nettuno che, con i suoi tritoni, spinge le navi dei Troiani affinché non passino nei pressi della spiaggia della maga Circe, la quale avrebbe tramutato gli uomini di Enea in orsi, cinghiali, leoni e lupi. Enea giunge finalmente a un bosco dove vede il fiume Tebro e, alla sua vista., sembra quasi che voglia saltare e toccare terra.
    Ora, percorrendo l’intera lunghezza della galleria fino a raggiungere l’altra grande finestra, si può vedere sopra lo stemma una grande medaglia: vi è rappresentato un gioco che si teneva ogni anno in Sicilia per commemorare Anchise. In tale occasione, Enea fece innalzare un albero di nave, sulla cui sommità fece legare una colomba. I concorrenti dovevano colpirla con una freccia.
    Nel grande riquadro centrale della galleria si trova un medaglione, in cui è narrata la scena di come Enea trovò la troia bianca, con trenta piccoli, accovacciata vicino al fiume Tebro. In precedenza, il Tebro gli era apparso in sogno dicendogli che il luogo dove avesse trovato l’animale era quello in cui avrebbe dovuto fermarsi e fondare il suo regno. Enea avrebbe dovuto sacrificare l’animale e tutti i suoi piccoli a Giunone, per attirare la sua benevolenza.

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    Ritornando nei pressi della finestra opposta alla piazza si vede Pallante, a sinistra, figlio di Evandro, re degli Arcadi, che con due navi sta attraversando il fiume. Enea gli mostra il ramo d’ulivo in segno di pace, cosicché viene accolto e condotto alla presenza di Evandro.
    Sul lato sinistro della volta è rappresentato il momento in cui Enea giunge al cospetto di Evandro in compagnia di Pallante e qui il re dei Troiani chiede a Evandro aiuto per combattere i Rutili. L’aiuto viene concesso e, al termine del dialogo, Evandro invita Enea alla festa che tutti gli anni si tiene in onore di Ercole per ricordare Caco, famoso ladro di armenti. La statua di Ercole è collocata sullo sfondo.
    Nell’altro grande ovale si vede Venere che cerca di convincere Vulcano, suo marito, a forgiare armi per Enea, suo figlio. Venere giace su una nuvola con accanto Cupido che gli mostra alcune armi già forgiate. Vulcano appare in basso, appoggiato a una corazza, mentre accanto i ciclopi continuano il loro lavoro. Nell’altra medaglia, collocata accanto al riquadro centrale, si vede Venere che appare al figlio Enea, che stava camminando, e gli mostra le armi avute da Vulcano. Enea si ferma per ammirarle.
    Nell’affresco centrale viene rappresentato il momento in cui Giove, re dell’Olimpo, chiama intorno a sé tutti gli dei per cercare un accordo di pace. Venere, affiancata da Cupido, si lamenta del pericolo che i Troiani corrono e dell’odio che Giunone nutre nei loro confronti. Giunone, al contrario, attribuisce ai Troiani colpe e disgrazie. Giove si rimette alla decisione della giustizia; quest’ultima appare al centro della composizione, vestita di azzurro con la bilancia in mano. Contemporaneamente la furia, in basso a sinistra, discende verso gli inferi e l’odio viene quindi annientato. Tra le altre divinità si riconoscono Mercurio con la tromba e il doppio serpente intrecciato, Bacco con la coppa e un grappolo d’uva, e Pan, la divinità dei boschi, con il flauto.

    Galleria Cortona (particolare) – Palazzo Pamphilj in Piazza Navona.

    L’ultima scena, collocata a destra della volta – guardando la finestra che affaccia su via dell’Anima – rappresenta Turno che sfida Enea sotto le mura della città di Laurento. Turno viene sconfitto e ferito e, pur di avere salva la vita, si sottomette al volere di Enea. Il vincitore sta per accordargli il perdono quando vede addosso a Turno la cinta del suo amico Pallante, segno della sua morte. Enea, colto allora da un moto d’ira, uccide Turno per vendicare Pallante.
    L’opera di palazzo Pamphilj suscitò grande consenso e ammirazione poiché rispecchiava appieno il gusto estetico del tempo e consacrava Cortona come uno dei massimi pittori del Seicento. Se infatti nella volta dei Barberini, una delle sue imprese più impegnative, l’artista aveva seguito la sua vena più irruente, utilizzando uno spazio completamente aperto che sovrasta e schiaccia lo spettatore, nella volta pamphiljana l’artista ha preferito una partizione ritmica dello spazio, offrendo al visitatore la possibilità di “leggere“ le singole scene. Anche l’uso del colore risponde a una tavolozza chiara e leggera, che conferisce alla narrazione un tono aggraziato e mai cupo. Cortona, con gli affreschi di palazzo Pamphilj, raggiunge un grado di maturità sorprendente e si pone come punto di riferimento per la pittura del secolo successivo.

    Roma, 28 ottobre 2018

  2. Alla scoperta delle antiche dimore: Palazzo Mattei di Giove

    Palazzo Mattei di Giove, detto anche Antici-Mattei fu costruito da Carlo Maderno tra il 1598 e il 1611 per Asdrubale Mattei, duca di Giove. È l’ultimo, in ordine di tempo, dei cinque palazzi Mattei che formano un unico complesso architettonico – la

    L’Insula Mattei in pianta.

    cosiddetta “isola Mattei” – tra via Caetani, via delle Botteghe Oscure, piazza e via Paganica, piazza Mattei e via dei Funari. È sede della Discoteca di Stato, del Centro Italiano di Studi Americani, dell’Istituto Storico per l’Età moderna e contemporanea e della Biblioteca di Storia moderna e contemporanea.
    I Mattei, le cui case medievali si trovano in Piazza in Piscinula a Trastevere, vennero a risiedere in questa zona alla metà del Quattrocento e vi costruirono gradualmente una serie di palazzi con il nome dei feudi di spettanza dei diversi rami familiari. Discendendo dall’antico casato romano dei Papareschi, i Mattei detenevano tra l’altro il remoto privilegio di fungere da “Guardiani di Ponti e Ripe” in periodo di Sede Vacante. Tale funzione, analoga a quella dei Chigi di “Maresciallo del Conclave” comportava anche il diritto di esigere pedaggi. La custodia dei ponti veniva assicurata da una compagnia di fanti in uniforme rossa, provenienti dai feudi ducali.
    Prime ad essere costruite furono le due case corrispondenti ai portali di piazza delle Tartarughe. Esse vennero riunite ed ebbero un’unica facciata a metà del Cinquecento.
    Quello a destra, cui si accede attraverso il più portale interessante, con cornice marmorea e stemma, ha di fronte un arioso porticato a doppio ordine di archi su agili colonne. Si accede al secondo piano con un erto scalone esterno che attribuisce un particolare fascino all’insieme, la cui realizzazione viene attribuita a Nanni di Baccio Bigio, allievo di Michelangelo.

    Palazzo Mattei di Giove – Giuseppe Vasi.

    Il Palazzo Mattei Paganica della via omonima è del Vignola: ha il cortile con portico e loggia chiusa sul lato della facciata e sale decorate dagli Zuccari. L’esterno si nota soprattutto per un grandioso cornicione. Ha sede nel palazzo l’Istituto della Enciclopedia Italiana, fondato nel 1925 da Giovanni Treccani.
    Sotto il palazzo si trovano i resti del Teatro di Balbo la cui scena era in direzione di via Caetani. Al di là della strada attuale si trovava la Crypta Balbi i cui avanzi, nei quali si erano insediati i funari, tintori ed altri artigiani, presero nel Medioevo il nome di “botteghe oscure”. La Crypta Balbi era un annesso del Teatro omonimo; essa doveva aver forma di portico o di passaggio coperto per funzioni di pubblica accoglienza, collegate con la vita del teatro medesimo. Su via delle Botteghe Oscure insiste Palazzo Caetani, costruito però per un Alessandro Mattei.
    Infine, Palazzo Mattei di Giove, titolo di un altro possesso feudale della famiglia, all’angolo tra le vie dei Funari e Caetani, quindi con doppia ed analoga facciata. L’esterno ha imponenza massiccia, alternando laterizio e travertino, ed è concluso con un maestoso cornicione. Due atri uguali, corrispondenti ai due portoni, confluiscono con bell’effetto in un primo cortile che ha, su un lato, uno spazioso porticato con loggia e, di fronte, l’arco di passaggio a un secondo cortile.

    Palazzo Mattei di Giove – Cortile.

    Difficile descrivere l’effetto di stupore e di serenità che è ingenerato dalla ricchissima esposizione di antichi rilievi sui diversi prospetti, dalle statue che ritmano il cortile, dai busti che si affacciano alla loggia. Questi marmi, che possono dare l’idea di un tipo di decorazione che fu propria di alcune delle più ricche dimore, e che sono profusi anche lungo lo scalone, con stucchi sui cupolini dei ripiani, rappresentano gli avanzi di una raccolta di antichità di proprietà della famiglia, e per la cui esposizione fu realizzata la Villa Mattei, oggi indicata con il nome di Villa Celimontana. In questo primo cortile compare lo stemma dei Mattei associato con l’aquila dei Gonzaga: Asdrubale era, infatti, sposato con Costanza Gonzaga, imparentata con la potente famiglia degli Asburgo.
    Nelle sale del palazzo ora occupate dal Centro Studi Americani, si possono ammirare affreschi di Francesco Albani, Giovanni Lanfranco, Pietro da Cortona, Paul Brill. In una piccolissima cappella sono visibile anche degli affreschi di Antonio Pomarancio. In questo bellissimo palazzo ha soggiornato, tra il novembre 1822 e l’aprile 1823, Giacomo Leopardi, imparentato con il ramo Antici- Mattei. Estinta, infatti, la linea maschile dei Mattei di Giove all’inizio del XIX secolo, il palazzo fu ereditato da Marianna, figlia di Giuseppe Mattei e moglie di Carlo Teodoro Antici di Recanati, fratello di Adelaide, madre di Leopardi.
    Nel 1938 l’edificio fu acquistato dallo Stato.

    Roma, 29 aprile 2018

  3. La rinnovata primavera del Palatino, il colle degli imperatori

    La posizione del Palatino, situato al centro del sistema delle colline che saranno via via occupate dalla città, in prossimità del Tevere, ma più lontano del Campidoglio e dell’Aventino, era la più adatta a un insediamento umano. La sommità centrale, il Palatium, digradava verso il Foro Boario e il Tevere con un pendio, il Germalus, ed era collegata al retrostante Esquilino tramite una sella e la collina della Velia.

    Insediamento Età del Ferro – Palatino.

    La leggenda racconta di un’occupazione del colle da parte di Greci immigrati dall’Arcadia sotto la guida di Evandro e del figlio Pallante, due divinità minori nel pantheon arcadico, e questa tradizione trova la sua conferma nelle scoperte archeologiche che hanno documentato la presenza di commercianti greci nel Foro Boario relativa all’epoca della colonizzazione greca dell’Italia Meridionale.
    Ma esiste anche la tradizione ancora più antica che vuole la fondazione di Roma a opera di Romolo, che viene data intorno alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, nel 754 avanti Cristo secondo lo storico Varrone vissuto tra l’età di Cesare e quella di Augusto. La Casa Romuli era identificata, già in antico, in una capanna, continuamente ricostruita e restaurata, situata nell’angolo Sud – Ovest della collina – lo stesso occupato più tardi dalla Casa di Augusto – dove sono stati scavati resti di capanne dell’età del Ferro, scoperta che sembra quindi confermare la tradizione.
    Sul Palatino sono attestate tradizioni religiose antichissime quali quella della dea Pales, il cui nome potrebbe essere collegato etimologicamente a Palatium. La festa della divinità, dette Palilia o Parilia cadeva il 21 aprile, che gli storici antichi considerano giorno della fondazione della città. Anche la festa legata alla lupa, i Lupercalia, animale sacro della città, aveva luogo sul Palatino. La grotta – santuario della lupa era collocata ai piedi del Palatino, verso il Tevere; da essa i sacerdoti – lupi, vestiti di pelli caprine, muovevano per fare il giro della collina, per purificarla ritualmente, frustando quanti venivano loro a tiro, specialmente le donne. Il rito assumeva così valore esplicito di cerimonia della fecondità. Il Lupercale e riti connessi vennero più tardi collegati con la leggenda dei mitici gemelli allattati dalla lupa.

    Resti del Palatium – Palatino.

    I culti di Apollo e di Vesta furono invece fondati da Augusto nell’ambito stesso della sua casa. Grazie agli scavi realizzati tra il 1865 e il 1870, è ormai accertato che il tempio di Apollo fu iniziato da Augusto nel 36 avanti Cristo, subito dopo la battaglia di Nauloco contro Sesto Pompeo, e terminato nel 28 avanti Cristo dopo Azio. Il tempio era compreso nella parte pubblica della Casa di Augusto, con il quale era intimamente collegato. La Repubblica segnò soprattutto la trasformazione della collina in un quartiere residenziale della classe dirigente romana. Tra coloro che vi abitarono, Tiberio Sempronio Gracco, padre dei famosi tribuni, il celebre oratore Lucio Licinio Crasso, Cicerone e suo fratello Quinto e Tiberio Claudio Nerone, padre dell’imperatore Tiberio.
    L’episodio fondamentale della storia del Palatino è che Augusto, che vi era nato, scelse di abitarvi, in un primo tempo nella casa di Ortensio, che fu poi da lui ampliata con l’acquisto di altre abitazioni. Di conseguenza, gli altri imperatori elessero anch’essi a loro dimora il Palatino, sul quale furono costruiti i palazzi di Tiberio, ampliato da Caligola, di Nerone, la Domus Aurea che si estendeva fin qui, dei Flavi, la cosiddetta Domus Flavia e la Domus Augustana, di Settimio Severo.
    Alla fine dell’età imperiale la collina era occupata da un unico immenso edificio, che nel suo insieme costituiva l’abitazione degli imperatori. Il nome di Palatium, Palatino, passò così a indicare il palazzo per eccellenza, quello dell’imperatore, e successivamente diventò un nome comune, diffuso in tutte le lingue europee.

    Ricostruzione del Palatino.

    In questo modo, nella sontuosità dei palazzi imperiali, si creò il simbolo stesso del potere: per mille anni ogni idea di dominio universale s’incardinò alla residenza su questo colle, dove, infatti, si succedettero i monarchi Goti, gli esarchi di Bisanzio e i protagonisti del rinnovato Impero, detto Sacro e Romano, da Carlo Magno fino a Ottone III.
    All’avvento del nuovo millennio il destino del colle mutò, e qui s’insediarono, fra le rovine e i campi destinati all’allevamento, chiese, conventi e fortezze di baroni in lotta. Nel 1542 il cardinale Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III, acquistò una serie di appezzamenti di terreno che occupavano le falde del Palatino, dal Foro alla cima del colle, fino a lambire il Circo Massimo. Quindi Alessandro incaricò il Vignola di disegnare e realizzare maestosi giardini che, oltre ad inglobare le rovine del Palazzo Imperiale, avrebbero ospitato piante non solo tipiche della macchia mediterranea, ma anche quelle provenienti dalle lontane Americhe, quali l’agave, la yucca, la mimosa, la passiflora e l’acacia. In molti casi queste piante venivano portate in Italia per la prima volta in questa occasione. Ma questi giardini avevano anche una parte destinata a vero e proprio orto dove per la prima volta vennero coltivati pomodori, peperoni, peperoncini e frutti come il fico d’India.
    Giardini di Alessandro Farnese avevano diversi scopi: far rivivere, anche dal nome Horti Palatini Farnesiorum, i fasti e il ruolo dei grandi Horti delle magnifiche domus della Roma classica che ricoprivano il Pincio o l’Esquilino e affermare la raggiunta e consolidata posizione politica e istituzionale della famiglia Farnese, e che, proprio per questo motivo, venivano a sorgere lì dove aveva avuto sede il potere da Augusto in poi.

    Horti Farnesiani – Charles Percier (1786-1790).

    D’altronde l’area dove Alessandro Farnese decise di far sorgere gli Horti era sempre stata un’area verde poiché la terrazza della Domus Tiberiana era stata un giardino pensile già al tempo degli imperatori della dinastia julio – claudia. Questa tradizione fu mantenuta anche successivamente visto che anche i Flavi e gli Antonini ebbero lì i loro giardini, sia per mantenere una sorta di unità di stile e di continuità architettonica, ma anche perché i giardini e i boschi avevano, per la cultura romana, una propria intrinseca sacralità che aveva, in questo caso, il ruolo di aumentare la sacralità dell’imperatore e in qualche modo ne legittimava l’autorità.
    La realizzazione degli Horti Farnesiani coprì un arco di tempo molto lungo e dopo il Vignola altri furono gli architetti che vi lavorarono come Giacomo del Duca e Girolamo Rainaldi.
    Gli Horti Farnesiani furono dotati d’ingresso monumentale, decorato da un portale disegnato e realizzato dallo stesso Vignola, aprirono la strada alla consuetudine delle più importanti, ricche e nobili famiglie romane, di dare vita a ville con suntuosi giardini. Poco dopo sarebbe stata la volta della Villa Mattei, oggi Celimontana, quindi a Villa Medici, a villa Borghese, villa Ludovisi, villa Pamphilji, Villa Giulia e via di seguito fino all’Ottocento, in una gara continua tra collezionismo e sfarzo.

    Portale d’ingresso – Horti Farnesiani – Vignola.

    Per due secoli gli Horti Farnesiani furono proprietà della famiglia Farnese che continuò a modificarli e ad adattarli alle mode e alle esigenze dei vari tempi tanto che nel 1718 essi verranno trasformati in “Reale Azienda Agricola. Nel 1861 gli Horti furono acquistati da Napoleone III per avviare delle campagne di scavo condotte da Pietro Rosa. Nel 1870 i giardini furono acquistati dal Governo Italiano e il direttore degli scavi divenne Rodolfo Lanciani, a cui seguirà Giacomo Boni che si occupò, all’inizio del Novecento, del primo tentativo di restauro e reintegro dei giardini.
    Grazie ad un accurato restauro iniziato nel 2013 e la cui prima fase termina proprio ora, aprile del 2018, viene data nuova vita agli Horti Farnesiani e si consente la visita, per la prima volta dopo più di 30 anni, alle Uccelliere, lì dove Alessandro raccolse ed espose la sua collezione di uccelli esotici e al Ninfeo della Pioggia che si mostra con il suo recuperato gioco d’acqua e le vasche sovrapposte.
    Arricchisce il nuovo percorso di visita, ma solo fino al 28 ottobre, una mostra dal titolo “Il Palatino e il suo giardino segreto. Nel fascino degli Horti Farnesiani” che ha lo scopo di illustrare al visitatore proprio le trasformazioni a cui sono andati in contro, nel tempo, gli Horti.

    Uccelliera e Ninfeo – Horti Farnesiani.

    Completano la mostra un prestito eccezionale del Museo Archeologico di Napoli: le due statue in marmo policromo del Barbaro inginocchiato e dell’Iside Fortuna, che avevano qui la loro collocazione originaria.
    Nel Ninfeo della Pioggia sono invece collocate due giganteschi busti di Daci imprigionati che fino al Seicento facevano parte del criptoportico del ninfeo stesso e al suo interno viene realizzato un percorso multimediale che consente di comprendere come fossero gli Horti nel momento in cui essi furono realizzati.

    Roma, 28 aprile 2018

  4. Monet al Vittoriano

    Per chi desiderasse partecipare alla mostra su Monet in corso al Complesso del Vittoriano, dovrà comunicare la propria adesione entro il 1° marzo 2018.
    Per disposizioni museali, i biglietti devono essere, infatti, obbligatoriamente acquistati 15 giorni prima della partecipazione alla mostra.
    Si prega pertanto di effettuare la prenotazione solo se è certi della partecipazione, e di avvisare per tempo in caso di disdetta.
    In caso contrario, sarà necessario rimborsare la quota del biglietto all’Associazione Roma Felix.

    Quota di partecipazione:
    21,00 € adulti
    12,00 € bambini fino a 10 anni

    La quota comprende: Biglietto di ingresso + diritti di prenotazione + servizio auricolari (obbligatorio e a pagamento fornito dal gestore ufficiale autorizzato del Complesso del Vittoriano) + visita guidata.