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  1. Basilica di Santa Maria in Trastevere

    Piazza Santa Maria in Trastevere. Si ringrazia “Roma Ieri e Oggi”.

    Piazza Santa Maria in Trastevere è stato l’unico vero centro dell’antico Trastevere e ne è anche oggi il punto più suggestivo, dominato dalla basilica, dall’armonioso, attiguo palazzo seicentesco e da edifici che accompagnano con equilibrio gli aspetti monumentali. Al centro è la fontana che sembra ricordare l’antico càntaro dell’atrio che doveva precedere la basilica e che è stata costruita con vasca ottagonale da Carlo Fontana nel 1692.
    La storia della fontana è però assai antica. La tradizione vuole infatti che sia stata la prima fontana di Roma costruita per volere di Augusto nel I secolo avanti Cristo, alimentata dall’acqua Alsenita e spostata in questa piazza, ma posizionata all’estremità opposta rispetto alla chiesa, da Nicolò V per il Giubileo del 1450.
    Come tutte le fontane romane però anche questa subiva una continua usura e quindi fu più e più volte rifatta. Nel 1498 da Bramante per volere del

    Piazza Santa Maria in Trastevere nella pianta di Roma di Pietro Il Massaio del 1571

    cardinale spagnolo Giovanni Lopez che fu ordinato da Alessandro VI, che facendo dell’ironia sul proprio cognome fece apporre sulla fontana un’iscrizione in latino, che in italiano recita così: “Se l’acqua che cade col blando mormorio ti concilia il sonno e forma tremuli laghetti; se bevi limpidi sorsi e ti lavi, devi ringraziare il Lupo che ha rifatto la fonte. Considerando quindi il suo interessamento, o Romolo, dimmi la verità: questo Lupo ti è forse meno padre di quanto non ti fu madre la lupa?“.
    Nel 1591 fu la volta di una nuova trasformazione: la fontana venne alimentata dall’acquedotto Felice e quindi divenne una vera e propria fontana pubblica, con acqua che era buona per abbeverare uomini e animali.
    Fu Bernini che nel 1658 si occupò di nuovo del suo rifacimento, la spostò nella posizione attuale e la collegò all’acquedotto dell’acqua Paola che proveniva dal Fontanone sul Gianicolo.

    Un testo del 1600 dove si vede chiaramente la posizione originaria della fontana.

    Ma anche la fontana del Bernini non durò molti anni se è vero che di nuovo Carlo Fontana nel 1692 la ebbe a rifarla per aumentarne la capacità. Tra i suoi interventi la sostituzione delle conchiglie berniniane che divennero così più grandi e furono disposte in posizione eretta. Ma la fontana che ammiriamo oggi non è quella imponente di Carlo Fontana, ma ciò che ne resta dopo un restauro di fine Ottocento.
    Ponendosi nella piazza di Santa Maia in Trastevere risulta ben chiara l’antica topografia di questa parte del rione e l’assoluta centralità che vi ebbe la piazza stessa, collocata nel punto di convergenza delle tre strade importanti del rione: le due sistemate ai primi del cinquecento da Giulio II, via della Lungaretta e via della Scala, in prosecuzione di via della Lungara, e il seicentesco rettilineo di Paolo V, la via di San Francesco a Ripa.
    Nella gerarchia delle chiese romane, Santa Maria in Trastevere occupa un

    La fontana di Carlo Fontana.

    posto di primo piano, venendo subito dopo le quattro basiliche maggiori, San Pietro, San Paolo, San Giovanni e Santa Maria Maggiore per la sua antichità. Essa fu anche tra le prime a essere dedicata alla Madonna, insieme a Santa Maria Antiqua tra Foro Romano e Palatino e Santa Maria Maggiore. Inoltre Santa Maria in Trastevere fu la prima a essere insignita del privilegio di “basilica minore” ed è quella che più frequentemente, in certi anni giubilari tormentati da calamità e pestilenze, veniva sostituita alla lontana San Paolo fuori le Mure sulla via Ostiense nelle visite d’obbligo dei pellegrini.
    Secondo la tradizione, la chiesa sarebbe stata fondata da papa Callisto I tra il 217 e il 222 e sarebbe stata completata da Giulio I nel 352. Nel nono secolo Gregorio IV compì altri lavori per depositarvi corpi di santi tratti dalle catacombe esposte ai colpi di mano dei Musulmani. Ma radicale e decisivo per le sorti della basilica fu il rifacimento totale nel secolo XII, avviato da Innocenzo II e completato da Eugenio III, il quale costruì, in ultimo, il

    Particolare di una delle conchiglie della fontana di Carlo Fontana.

    campanile, che può essere datato tra il 1145 e il 1153. Rifacimento che venne effettuato utilizzando quasi esclusivamente i travertini e i marmi delle terme di Caracalla.
    Altri lavori vennero eseguiti nel 1584 a cura del cardinale Marco Sitico Altemps, mentre nel 1617 venne rifatto il soffitto della chiesa medesima e, per tutto il secolo, si lavorò alla costruzione delle cappelle barocche. Nel 1702, su progetto di Carlo Fontana, venne creato il protiro. Notevoli altri lavori vennero eseguiti da Virginio Vespignani sotto Pio IX.
    Nella preistoria della basilica sta un fatto straordinario che non dovrebbe essere privo di qualche obiettivo fondamento: lo zampillare dal suolo di una fonte di olio minerale che, in seguito, sarebbe stata considerata preannuncio e simbolo dell’avvento dell’era cristiana. Il luogo della “fons olei” è oggi indicato da un gradino del presbiterio.
    Nella facciata, che risulta il centro focale della bella piazza raccolta, quasi come un antico atrio, attorno alla basilica, si nota in modo particolare la

    Particolare del mosaico della facciata: Maria in trono che allatta il Bambino.

    scintillante fascia dei mosaici, forse risalenti al XIII secolo e probabilmente restaurati da Pietro Cavallini. Poi lo sguardo ascende verso l’alto dello snello campanile romanico dove splende in piccolo tabernacolo il mosaico della Vergine con il Bambino. A coronamento del campanile c’è una campana esterna, mentre più in basso si trova un grande orologio.
    Il portico con cinque cancelli è coronato da una balaustra con statue, e contiene un denso lapidario cristiano e avanzi marmorei della più antica chiesa.
    L’interno, di tipo basilicale, è a tre navate divise da due file di 22 colonne di granito. Altre due colonne sostengono l’arco trionfale e due coppie di minori colonne reggono gli archi terminali delle navate minori. La grande

    Mosaico del catino absidale.

    aula è avvolta in un’atmosfera di equilibrata, ma esaltante policromia che va dal pavimento cosmatesco ai lacunari del soffitto, fino allo sfolgorio dei mosaici dell’abside.
    Il soffitto venne disegnato dal Domenichino nel 1617 del quale è anche la grande figura dell’Assunta, dipinta su rame, che si trova al centro del complesso lavoro di intaglio, di dorature e di pittura. I mosaici absidali sono su tre fasce: in basso, tra scene dipinte del Cinquecento, domina un riquadro del Cavallini con la “Madonna e i Santi”; al di sopra sono le scene della vita della Vergine Maria dello stesso autore; più in alto sono i mosaici del XII secolo con scene simboliche nel semicatino e figure di profeti nel frontone.
    Nel presbiterio, dominato dal cinquecentesco soffitto a cassettoni, si notano il ciborio su colonne di porfido, rifatto dal Vespignani, plutei e candelabro pasquale dei Cosmati.

    Cappella Altemps. La volta.

    In una piccola nicchia in fondo alla navata destra sono conservati alcuni strumenti di morte e di tortura utilizzati per numerosi martiri: catene, pesi di ferro e pietre. Secondo la leggenda tra questi strumenti di tortura ci sarebbero anche le catene e i pesi che furono legati al collo di San Callisto quando questi fu gettato nel pozzo per annegarlo. Il pozzo teatro del martirio è invece conservato nella vicina chiesa di San Callisto.
    A fianco dell’abside e nel transetto ci sono interessanti monumenti funebri di varie epoche: da notare quello Armellini nel transetto di destra e, in quello di sinistra, un altare gotico e i due monumenti laterali.
    Fra le cappelle, risaltano quella Altemps, sulla sinistra dell’abside, progettata da Martino Longhi e coperta di stucchi e dipinti, e quella D’Avila di Antonio Gherardi risalente al 1680, improntata a una architettura particolarmente fantasiosa per i giochi prospettici e illusionistici che portano il borrominismo alle estreme conseguenze.
    Si notano ancora nella chiesa un crocefisso ligneo dei primi del Quattrocento, un ciborio di Mino del Reame e il sepolcro dall’autore della chiesa medievale Innocenzo II, le cui spoglie vennero qui fatte trasferire dal Laterano all’epoca di Pio IX. La cappella del battistero è di Filippo Raguzzini.

    Roma, 23 febbraio 2020

  2. Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, custodia della cristianità

    Sulla sinistra di Porta Tiburtina, il piccolo Parco Tiburtino e Villa Mercede sono i modesti avanzi della distesa di vigne e di ville preesistenti.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Oggi.

    Poco lontano dalle mura alle quali, in epoca medievale, essa era collegata da un portico, sorge la basilica di San Lorenzo fuori le Mura, uno dei trenta edifici sacri intitolati a Roma al diacono Lorenzo. Di origine spagnola, fu martirizzato il 10 agosto dell’anno 258. Il martirio avvenne, secondo tradizione, sopra una graticola ardente, custodita nella basilica di San Lorenzo in Lucina, nel luogo dove oggi sorge la chiesa di San Lorenzo in Panisperna. Il corpo venne poi sepolto nell’antico ager Veranus, che si estendeva lungo la via Tiburtina.
    L’imperatore Valeriano era a conoscenza del fatto che Lorenzo, tra i sette diaconi di Roma, fosse il depositario dei beni della Chiesa di Roma, privata di papa Sisto II e dei vescovi già messi a morte. Alla richiesta del prefetto dell’imperatore di consegnargli tale “tesoro”, Lorenzo fu costretto a mostrarglielo. Allora Lorenzo si presentò al suo cospetto con una folla di

    San Lorenzo Fuori Le Mura – 1852 circa. Si ringrazia RomaSparita.

    poveri. «Ecco! Questo è il tesoro della Chiesa» disse. Un gesto, quello, che gli sarebbe costato la prigionia e poi il martirio.
    Il luogo di sepoltura nell’Agro Vaticano, nel cimitero della matrona Ciriaca, divenne un luogo di culto. E “di Ciriaca” sono chiamate le catacombe che si sviluppano sotto la chiesa e sotto il cimitero monumentale del Verano.
    Nel centro del piazzale antistante la basilica si alza una colonna collocata nel 1865, in sostituzione di un’altra precedente più piccola come monumento commemorativo della conclusione dei grandi lavori voluti da Pio IX, sepolto proprio in San Lorenzo fuori le Mura, per il generale restauro della basilica e per la sistemazione del piazzale stesso, in coincidenza della costruzione del cimitero. Essa sorregge una statua bronzea del diacono Lorenzo, opera di Stefano Galletti.
    In un’aiuola laterale è stata invece sistemata la statua bronzea dedicata al papa Pio XII, realizzata grazie a una sottoscrizione, in ricordo della visita al quartiere ancora fumigante per il bombardamento dell’ultima guerra.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Dopo il bombardamento del 13 luglio 1943.

    Il 19 luglio 1943 un pesante bombardamento americano sulla zona degli impianti ferroviari di Roma pose fine all’illusione della intoccabilità dell’Urbe, provocando migliaia di vittime e ingenti danni. Unico monumento della città ridotto in cenere fu proprio San Lorenzo. Anche i successivi bombardamenti che si ebbero sulla città fino al giugno del 1944, risparmiarono il patrimonio monumentale di Roma.
    La basilica appartiene al novero delle sette chiese – basiliche giubilari, meta dei pellegrinaggi penitenziali degli anni santi e di tutti coloro che vogliono visitare una delle più importanti memorie cristiane.
    Allo stato attuale delle scoperte archeologiche, sembra di poter affermare che l’imperatore Costantino creò un sacello sulla tomba del martire che si trovava sotto la collina del Pincetto. La collina era allora assai più avanzata e solamente in seguito venne tagliata. Contemporaneamente l’imperatore costruì una grande basilica di quasi 100 metri di lunghezza e 36 di larghezza, la stessa cosa fece a Sant’Agnese fuori le Mura, dove rimangono in parte i resti perimetrali della basilica.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Dopo il bombardamento del 13 luglio 1943.

    Mentre tale basilica detta “maior” – che si trovava sul posto dell’attuale cimitero – è andata distrutta con il passare del tempo, secondo una sorte che è toccata a un insieme di oratori, di mausolei, di ospizi e di altri edifici che avevano finito per costituire una sorta di sacro sobborgo, sopra il sacello posto sulla tomba di San Lorenzo si sviluppò una chiesa che trovò pieno assetto con papa Pelagio II, 579-590.
    Quella chiesa corrisponde al presbiterio dell’attuale basilica ed era orientata nel senso opposto. Successivamente Onorio III, 1216-1227, ne fece demolire l’abside e raccordare l’edificio a un’altra costruzione più grande costituita dalle tre navate della basilica di oggi.
    Il complesso di San Lorenzo si avvale di un grandissimo fascino, a cominciare dall’esterno, la cui facciata con tre grandi finestre a centina è stata completamente ricostruita dopo il bombardamento e ha naturalmente perduto le decorazioni pittoriche ottocentesche. Il portico-nartece, anch’esso ricostruito, appartiene ai lavori di Onorio III. È retto da sei colonne che reggono un architrave sul quale corre un raffinato fregio

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Interno.

    mosaicale, attribuibile alla scuola marmoraria del Vassalletto e simile a quello del chiostro lateranense. Nell’interno del portico sono collocati alcuni pregevoli sarcofaghi antichi, la stele commemorativa della visita di Pio XII alle rovine della basilica, il giorno stesso della sua distruzione, e la tomba di Alcide De Gasperi, il presidente della ricostruzione italiana dopo la guerra. L’opera di singolare efficacia è di Giacomo Manzù. Sempre nel portico si trovano alcuni affreschi della fine del secolo XIII.
    L’interno della chiesa mostra subito il divario di forma architettonica fra le sue due parti. Le tre navate sono divise da colonne ioniche, sorreggenti un architrave, sono di spoglio, diverse fra loro, forse in parte provengono dalla precedente basilica costantiniana. Il pavimento cosmatesco di epoca onoriana, datato agli inizi del XIII secolo, è stato accuratamente ricomposto, salvo qualche parte perduta al centro. Il tetto è stato lasciato a capriate, sopprimendo i cassettoni quattrocenteschi. Sono andati perduti per la

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Interno.

    massima parte i dipinti di Cesare Fracassini che erano stati eseguiti in occasione del restauro di metà ottocento sulle pareti della navata principale. Restano quelli dell’arcone trionfale e un grande pannello è stato collocato sopra la porta.
    Nella navata centrale sono due magnifici amboni del trecento, fine opera dei marmorari. Accanto a quello di destra, si trova un candelabro pasquale tortile e decorato a mosaico.
    Al termine della navata, dove un gradino bianco circolare segna l’andamento dell’abside della chiesa di papa Pelagio, un sistema di scale porta alla “confessione”, alla cripta e al presbiterio. La cripta corrisponde al livello originario della chiesa di papa Pelagio che era munita anche di un portico interno. All’epoca della sua trasformazione essa era stata colmata di materiale di riempimento che Virginio Vespignani, autore del restauro ottocentesco – il quale, fra l’altro, isolò la chiesa dalla collina che la avvolgeva su due lati, danneggiandola con l’umidità – eliminò, provvedendo a sorreggere il presbiterio con pilastri e colonnine. La zona

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Mosaico dell’arcone.

    della confessione corrisponde al sepolcro di Lorenzo e di santo Stefano protomartire.
    Sul retro, l’intero portico antico di ingresso è stato trasformato nella Tomba di Pio IX. Questa per volontà del papa che aveva presieduto ai restauri della chiesa avrebbe dovuto essere molto semplice. Assunse invece il ricchissimo aspetto attuale per un moto spontaneo di riparazione del mondo cattolico contro le offese recate alla memoria del papa. La sistemazione è opera dell’architetto Raffaele Cattaneo che concepì una decorazione neo-bizantina. I pannelli musivi sono del tedesco Ludovico Seitz.
    Il presbiterio è artisticamente il punto di maggiore interesse della chiesa. Lo si raggiunge con due scalette ai lati della confessione. Quel che più colpisce sono le grandi colonne che emergono dal livello inferiore e che con bellissimi capitelli ionici sostengono una trabeazione costituita da un complesso di marmi decorati ad intaglio provenienti da diversi monumenti. Al di sopra si snodano gli archetti dell’antico matroneo, con belle colonnine, fra loro diverse. Ai lati del presbiterio, rettangolare, ci sono lunghi sedili marmorei e, in fondo, una sedia episcopale con un dossale in cui sono inseriti dischi di porfido e di serpentino; ai lati essa ha due meravigliosi plutei con riquadri anch’essi di serpentino e porfido e con colonnine tortili mosaicate. Si ritiene che tutto questo materiale, così sistemato nel 1254, provenga da una più antica schola cantorum, realizzata dai marmorari romani. A questi ultimi si deve anche il pavimento cosmatesco e il ciborio, composto di quattro colonnine di porfido che reggono una trabeazione sorreggente un secondo ordine ortogonale di colonnine, sovrastato a sua volta da una cuspide pure a colonnine. Si tratta del tipo di ciborio a gabbia che si ritrova in varie chiese romane e che qui è stato ricostruito dal restauro ottocentesco al posto di una cupoletta cinquecentesca. L’opera è firmata dai fratelli Pietro, Angelo e Sasso, marmorari figli di Paolo e datata

    Sarcofago antico utilizzato quale tomba del cardinale Fieschi.

    al 1148. Si tratta quindi di un lavoro precedente alla sistemazione di papa Onorio III e pertanto qui trasportato da precedente e diversa collocazione. Sotto il ciborio è custodito un altare ricomposto con antichi frammenti, fra cui una grande lastra di porfido.
    Dal presbiterio si gode altresì il mirabile mosaico della fronte interna dell’arcone; essa, un tempo, introduceva al fulgore dei mosaici del catino dell’abside distrutta. Questo mosaico raffigura “Cristo tra Santi” e con papa Pelagio II che offre il modello della sua chiesa; è opera di transizione tra lo stile romano e il bizantino e vi appare nitida la mano di tre artisti diversi, di differente formazione culturale.
    Il bombardamento ha spogliato la chiesa di molte sovrastrutture ornamentali, specie barocche. Restano alcuni sepolcri, fra i quali, importante, quello del cardinale Fieschi, morto nel 1256: riutilizza un bel sarcofago antico, riquadrato come un ciborio, che comprendeva anche un affresco oggi andato distrutto.

    San Lorenzo Fuori Le Mura – Particolare del pavimento.

    Alla fine della navata sinistra, un vano di due metri per due è decorato con affreschi dell’VIII secolo. Dal fondo della stessa navata, una scala, affiancata da due monumenti funebri di Pietro da Cortona con busti di Francesco Duquesnoy, porta alla sotterranea cappella di Santa Ciriaca che dà accesso alle catacombe. L’altare, sul quale avrebbe celebrato san Pietro, è arricchito da ex voto.
    In un piazzaletto a destra della chiesa si leva il campanile romanico, che risale probabilmente alla metà del secolo XII. Ha cinque ordini di archetti divisi da pilastri e un aspetto severo.

    Roma, 4 gennaio 2020

  3. Tempo di Natale: la Basilica di Santa Maria all’Ara Coeli e il Bambinello miracoloso

    «Santa Maria in Ara Coeli al Campidoglio, Chiesa regionale SENATUS

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Canaletto.

    POPULUSQUE ROMANUS»: la definizione dell’Annuario della Diocesi di Roma è tanto sintetica quanto densa di significati: se la Basilica di San Pietro in Vaticano e la Cattedrale di San Giovanni in Laterano legano l’Urbe all’apostolo Pietro e ai suoi successori, l’Ara Coeli è la chiesa del popolo romano e delle sue istituzioni civiche. E c’è più di una ragione a rendere questa chiesa unica: secondo un’antica tradizione, nel luogo dove essa sorge, l’imperatore Ottaviano Augusto avrebbe avuto la visione di una giovane donna con un bambino in braccio che gli preannunciava: «Haec est Ara Filii Dei», «questo è l’Altare del Figlio di Dio». Dopo quella visione, l’imperatore avrebbe deciso di innalzare un piccolo altare a quel Dio bambino che stava per arrivare.
    E proprio grazie alla presenza di un’effige di Gesù Bambino, la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli è carissima al cuore dei romani e dei fedeli di ogni parte del mondo: dalla fine del XIV secolo, infatti, la chiesa ospita una statuetta lignea che raffigura il Bambino Gesù – per i romani «er Pupo» o «er Bambinello» – dispensatore di miracoli e grande beniamino dei bambini, i quali, da tempi immemorabili, si recano dalla notte di Natale fino all’Epifania, al suo cospetto, a leggere pensierini, esprimere desideri e recitare preghiere.

    Il Bambinello – Basilica di Santa Maria in Ara Coeli

    La Chiesa dell’Ara Coeli, come si è soliti chiamarla familiarmente, è dunque una delle più venerabili fabbriche della città.  Già nel 574 la chiesa, denominata allora Santa Maria in Capitolio, era considerata molto antica. Secondo alcune fonti a volerla edificare fu sant’Elena, la madre di Costantino. Secondo altre, papa Gregorio Magno.
    Comunque, in quel VI secolo, annesso alla chiesa c’era anche un convento di monaci greci. Dopo i greci, erano arrivati i monaci benedettini a governare chiesa e convento, i quali, a loro volta, nel XIII secolo, lasciarono il posto ai francescani, l’ordine dei tempi nuovi.
    E mentre le vestigia di Roma antica erano ormai andate in rovina, qualcosa dell’antica gloria del Campidoglio era ancora viva entro le mura della chiesa e del convento: qui gli anziani della città si riunivano per discutere dei loro affari, alla maniera in cui il Senato era solito riunirsi ogni anno nel tempio di Giove, situato nei secoli della Roma antica, sull’altra sommità del colle capitolino.

    Scalinata della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. Si ringrazia “RomaSparita”.

    In un’epoca non precisata, la chiesa, ad un certo punto, cambiò nome: da Santa Maria in Capitolio in Santa Maria in Ara Coeli. Qualche notizia sul motivo del cambiamento si rintraccia nei Mirabilia Urbis Romae, le antiche guide della città famosissime dall’alto medioevo fino al tardo rinascimento.
    Vi si afferma che la chiesa era stata costruita sul sito dove sorgeva il tempio di Giunone Moneta, dove si trovava la zecca romana, donde prese origine la parola moneta ai tempi di Augusto imperatore, che aveva proprio nei pressi del tempio di Giunone uno dei suoi palazzi. Ed era stato proprio in quel palazzo che l’imperatore, «sbigottito che il Senato volesse tributargli gli onori riservati agli dei», aveva interpellato la Sibilla Tiburtina. E la Sibilla così si era espressa: «vi sono indizi che presto dal sole scenderà il Re dei secoli venturi e la vera giustizia sarà fatta». Mentre la Sibilla parlava, l’imperatore vide aprirsi i cieli e scorse una giovane donna che teneva in braccio un bambino ammantato di luce; due voci gridarono dal cielo: «Questa è la Vergine che porterà nel suo grembo il Salvatore del mondo. Questo è l’altare del Figlio di Dio». Allora Augusto eresse un altare nel luogo stesso della visione – l’Ara Filii Dei o Ara Coeli – .
    Parecchi cronisti del Medioevo menzionano questo altare. Un’ulteriore conferma della tradizione si volle vedere in un’antica colonna sulla quale si leggevano le parole a cubicolo Augustorum, ovvero «dalla stanza degli imperatori»: la colonna è la terza nella navata sinistra della chiesa.

    La così detta Colonna di Augusto. Si ringrazia Alvaro de Alvariis.

    Che la tradizione si riferisca al Campidoglio e a Ottaviano Augusto può essere anche dovuto al fatto che nel secolo XI esisteva nella zona dell’Ara Coeli un edificio di mole considerevole noto come camera o palatium Octaviani, nel quale, tra l’altro, fu ospitato un emissario dell’imperatore Enrico III, Rex romanorum dal 1039 al 1056, e dal 1046 imperatore del Sacro Romano Impero.
    Nel transetto sinistro dell’Ara Coeli, entro un tempietto con otto colonne, un’urna di porfido che si dice contenesse le spoglie mortali di sant’Elena, madre di Costantino, poggia su un altare incassato nel pavimento ritenuto proprio l’Ara Coeli fatto costruire da Augusto. Nell’abside un affresco ritrae Augusto e la Sibilla Tiburtina tra i santi e gli angeli, cosa davvero inusitata per un imperatore pagano. In verità questa profezia fu talmente cara ai fedeli romani che le Sibille compaiono tra gli elementi decorativi delle chiese cristiane. Agli albori del XII secolo la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli assume, definitivamente, il ruolo di chiesa del popolo romano: è il 1143 quando a Roma ebbe luogo la cosiddetta renovatio Senatus, ossia il rinnovamento dell’antica istituzione in opposizione al potere del sovrano Pontefice, allora era papa Innocenzo II. Un anno dopo fu istituito il Comune di Roma con a capo il potente Giordano Pierleoni, il quale scelse il Campidoglio e quindi l’Ara Coeli come sede dell’istituzione cittadina. E proprio nella chiesa ebbero luogo, per anni, le assemblee dei rappresentanti del popolo. Nel 1250, papa Innocenzo IV decise di affidare chiesa e

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Interno.

    monastero ai francescani, i quali ristrutturarono gli edifici che continuarono ad essere oltre che luogo di culto, anche il centro della vita politica del libero comune. I francescani ne cambiarono anche l’orientamento: prima verso i Fori, ora verso la basilica di San Pietro in Vaticano. Una strana commistione tra religione e politica, che però, nonostante tutto, manteneva distinte l’una dall’altra. Nel 1348 si procedette alla costruzione della bellissima scalinata con 122 scalini che ammiriamo ancora oggi, commissionata dal comune come voto alla Madonna affinché ponesse fine alla peste che imperversava in tutta Europa. Ad inaugurare la scalinata fu Cola di Rienzo, tribuno del popolo e grande studioso di antichità romane. Benché non fosse mai stato anticlericale, ma anzi avesse sempre accuratamente coltivato il sostegno papale alle proprie imprese, la figura di Cola di Rienzo fu assai cara all’immaginario risorgimentale e massone, che ne fece l’eroe antesignano di un risorgimento di Roma rimasto incompiuto. Ma tornando alla nostra chiesa, va ricordato che proprio entro le sue mura Francesco Petrarca fu laureato poeta nel 1341. E che, nel 1571, vi fu celebrato il trionfo di Marcantonio Colonna, comandante della Lega cattolica contro i Turchi a

    Una Processione a Santa Maria in Ara Coeli – Oswald Achenbach.

    seguito della sua vittoria nella battaglia di Lepanto: lo straordinario soffitto dell’Ara Coeli ne ricorda la celebre vittoria. Sempre qui, dal XIV al XIX secolo, si celebrava il Te Deum di ringraziamento del popolo romano alla presenza del Papa. Nonostante il carico di storia e di tradizioni che questa chiesa vanta, il vero motivo per cui è famosa in tutto il mondo è la presenza del Bambinello, una scultura di Gesù Bambino intagliata nel XIV secolo da un frate francescano nel legno d’ulivo proveniente dal Getsemani. Tranne che nel periodo delle feste natalizie, durante le quali viene trasferita nel presepe allestito in una cappella della navata sinistra, la sacra effige viene conservata in una custodia di vetro posta sull’altare di una piccola cappella accanto alla sacrestia. Purtroppo, la statuetta fu rubata nel febbraio del 1994 e mai più ritrovata. Al suo posto fu posta una copia che ha continuato a elargire tante e tante grazie: nella cappellina due grandi contenitori di vetro pieni zeppi di lettere spedite da bambini e da fedeli di tutto il mondo contenenti le richieste di miracoli. Spesso sono indirizzate semplicemente «Al Bambino, Roma». I foglietti, poi, vengono bruciati senza che siano stati aperti dai padri francescani, i quali non si intromettono in quello stupendo dialogo tra Gesù e i suoi piccoli. Molte volte, prima di quel 1994, si è tentato

    Basilica di Santa Maria in Ara Coeli – Giovan Battista Piranesi.

    di rubare il Bambinello: nel febbraio del 1794, una donna se lo portò a casa e lo sostituì con una copia perfetta. Ma a mezzanotte dello stesso giorno, le campane dell’Ara Coeli si misero a suonare e alle porte del convento i francescani ritrovarono il Santo Bambino che fu subito rimesso al suo posto, mentre la copia andava in mille pezzi. E poco prima di quel febbraio del 1994, giorno del furto definitivo, qualcuno si portò via gli ori e i gioielli che ricoprivano la statuetta. Dopo alcuni mesi, i fedeli di ogni parte del mondo ne donarono altrettanti. Molti sono i malati che, ancora oggi, chiedono ai padri francescani di poter vedere e toccare il Bambinello: e allora ecco che la statuetta lascia la sua cappellina per andare in visita a chi ne ha bisogno. Oggi i trasferimenti avvengono il più delle volte in taxi. Ma per secoli si è utilizzata una bellissima carrozza e successivamente un’automobile cardinalizia. A tal proposito a Roma rimane famoso l’episodio di quando alcuni soldati fermarono un’automobile cardinalizia che tentava di attraversare Piazza Venezia mentre Benito Mussolini teneva un discorso. Appena si accorsero che trasportava il Santo Bambino al capezzale di un malato, la lasciarono proseguire immediatamente. Si spera sempre che la statuetta rubata possa tornare prima o poi al suo posto. Anche se pare che il Signore non sembra curarsi troppo del dettaglio, continuando a elargire con larghezza la sua grazia attraverso la semplice copia.

    Roma, 13 dicembre 2019

  4. Sulle tracce di Pietro l’Apostolo: chiesa dei Santi Nereo e Achilleo

    Gli Atti di Pietro, testo cristiano apocrifo composto in greco nella seconda metà del II secolo, narra della predicazione, dei miracoli e della morte del principe degli apostoli. Di questa narrazione fa parte l’episodio della sua momentanea fuga da Roma lungo la via Appia per evitare la

    Basilica dei Santi Nereo e Achileo. Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella”

    condanna a morte. Durante il percorso Pietro, fuggito miracolosamente dal Carcere Mamertino posto ai piedi del Campidoglio, perde una “fasciola”, la benda che gli copriva le caviglie piagate per essere state strette nei ceppi. Una pia matrona aveva poi raccolto la fasciola.
    Il luogo dello smarrimento si troverebbe presso le Terme Antoniniane, fatte edificare da Caracalla nel III secolo, e qui sarebbe sorto il celebre titulus fasciolae frequentato dai Cristiani che abitavano lungo l’Appia. Sempre qui nel IV secolo sarebbe sorta una chiesa dedicata a San Pietro. Successivamente, probabilmente a partire dal VI secolo, la stessa chiesa fu intitolata ai santi Nereo e Achilleo, le cui spoglie riposano sotto l’altare.
    Ma l’episodio più famoso e commovente di questa narrazione è ricordato subito fuori Roma nel punto in cui oggi si dividono la via Appia Antica e l’Ardeatina. A quell’incrocio sorge la chiesetta del Quo vadis, nel luogo in cui a Pietro, in fuga da Roma, sarebbe venuto incontro il Signore che gli avrebbe detto: «Vengo a Roma per essere crocifisso di nuovo». Al che Pietro, tornò sui suoi passi e andò a incontrare la morte che avverrà nello “stadio privato” di Nerone, in Vaticano.

    Basilica di Nereo e Achilleo – Interno.

    Della chiesa intitolata ai santi Nereo e Achilleo, si ha memoria fin dall’anno 377, ma fu rifatta più volte.
    Il titulus Sanctorum Nerei et Achillei viene per la prima volta ricordato nel 595 al posto del titulus Fasciolae. Quest’ultimo viene registrato per la prima volta da papa Simmaco nel 499, ma era già noto nel 377 come è attestato da un’iscrizione che si trova oggi in San Paolo Fuori le Mura, e che cita un certo Cinammio come lector del titulus Fasciolae.
    Vista questa tempistica si può desumere che la dedica del titulus Fasciolae ai due santi deve essere avvenuta nel corso del VI secolo.
    La titolazione della chiesa ai santi Nereo e Achilleo avviene perciò sotto il pontificato di san Gregorio Magno, quindi tra il 590 e il 604; l’edificio sacro mantenne pure nel nome il titulus fascicolae.
    Nereo e Achilleo, secondo la tradizione, erano servi della nobile Flavia Domitilla e con lei martirizzati per la loro fede cristiana all’epoca di Diocleziano. Più verosimilmente, ma anche secondo una testimonianza storica di papa Damaso, entrambi erano soldati, uccisi nell’ambito della crudele persecuzione dioclezianea che colpì inizialmente proprio i “fratelli dell’esercito”.
    Il luogo in cui fu costruita la chiesa era paludoso e malsano tanto che, sotto il pontificato di Leone III, nell’814, l’antico edificio sacro era ormai completamente diroccato e affondato nel terreno. Papa Leone III decise così di abbatterlo e di farne costruire uno nuovo di maggior decoro e bellezza in una zona più stabile nei pressi. A questa ricostruzione data il mosaico dell’arco trionfale, che ancora si può ammirare.

    Basilica dei Santi Nereo e Achilleo – Baldacchino.

    Dopo un secondo periodo di abbandono, Papa Sisto IV, 1471 – 1484, per il Giubileo del 1475, restaurò la chiesa facendo apportare alcune modifiche strutturali: la volle, infatti, più piccola e fece sostituire le colonne con pilastri in muratura.
    Di nuovo seguì un periodo di degrado fino alla vigilia del Giubileo del 1600, quando, il cardinale Cesare Baronio, della Congregazione dell’Oratorio di Roma, fece istanza al Papa per averne il titolo cardinalizio con il proposito di riportarla a nuovo splendore. Così, con un breve di Papa Clemente VIII del 29 giugno 1597, la chiesa venne assegnata in perpetuo alla Congregazione dell’Oratorio. È questa la data che segna la nuova storia della basilica. Il cardinal Baronio profuse un grande impegno, portando a termine intensi lavori di ristrutturazione e di abbellimento, tra i quali il ciclo di affreschi che decorano tutte le pareti della chiesa. 
    L’interno è basilicale, oggi, è a tre navate. La decorazione consiste in crudi affreschi di martiri del Pomarancio e nel mosaico dell’arco trionfale con la trasfigurazione di Cristo, che è quello fatto realizzare da papa Leone III, e data quindi al secolo IX. Si trovano altresì nella chiesa un coro cosmatesco, un ambone medievale, un candelabro marmoreo del XV secolo e vari avanzi romani. All’esterno, davanti ad una semplice facciata caratterizzata da un protiro su due colonne, è una colonna di granito con la croce.

    Basilica dei santi Nereo e Achilleo – Arco absidale. Si ringrazia “I Viaggi di Raffaella”.

    Il portale presenta entrambe le dediche della chiesa: “Ss MARTYRUM NEREI ET ACHILLEI e TITULUS FASCIOLAE“; inoltre è sormontato da un finestrone che illumina la navata centrale ed è ornato da una semplice cornice in travertino con timpano spezzato, al centro del quale vi è posto l’affresco raffigurante una Madonna con Bambino.
    La chiesa fu restaurata nuovamente nei primi anni del Novecento e poi ancora nel 1941, in occasione di questo restauro fu riportata alla luce la superficie a riquadri con drappi che contraddistingue la facciata. Questa si presenta in posizione arretrata fra due alte murature appartenenti all’edificio originario, con il corpo centrale con tetto a capanna sopraelevato rispetto ai due laterali.

    Roma, 17 settembre 2019