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  1. Il Centenario: Alberto Sordi 1920-2020. La mostra a Villa Sordi

    Per celebrare i cento anni dalla nascita di Alberto Sordi, che si

    Alberto Sordi.

    festeggeranno il 15 giugno 2020, la villa di Roma in cui dimorò, situata in piazzale Numa Pompilio, ospita una mostra a lui dedicatagli aperta dal 7 marzo al 29 giugno 2020.
    Intitolata Il Centenario – Alberto Sordi 1920-2020, la mostra è curata da Alessandro Nicosia, insieme con i giornalisti Gloria Satta e Vincenzo Mollica. Tra documenti inediti, fotografie, filmati e cimeli di vario tipo, l’esposizione porterà il visitatore a esplorare la casa e a conoscere meglio la vita e la carriera di “Albertone”. La villa, aperta al pubblico per la prima volta, fu progettata negli anni trenta dall’architetto Clemente Busiri Vici. Sordi la vide per la prima volta nel 1954, rimanendone così affascinato da comprarla poche ore dopo averla visitata.
    Una grande mostra per conoscere ancora meglio Alberto Sordi, che conosciamo tutti per la sua produzione, ma poco per quello che in effetti era. In mostra c’è una sezione nella quale è stato inserito del materiale

    La casa – museo di Alberto Sordi.

    ritrovato davvero incredibile. I curatori hanno cercato di rispettare gli ambienti che sono rimasti intatti dopo la morte, così come lui li aveva voluti e vissuti. Questa mostra permette di scoprire un Sordi che va oltre i successi e la fama e di conoscere storie che circolavano a proposito del suo privato. Il progetto si compone di due racconti che si sviluppano in parallelo: il Sordi pubblico e il Sordi privato. Nel percorso la vita pubblica e quella privata dell’attore si intrecciano generando non poche sorprese, dando vita a una narrazione vivace e avvincente conducendo il visitatore alla scoperta di alcuni tratti inconsueti e poco conosciuti della personalità dell’artista. Villa Sordi è un vero teatro: una sala da barbiere, un’austera camera da letto. E poi Crocifissi e Madonne, quadri del ‘600 e ‘700, un De Chirico unica

    Alberto Sordi.

    concessione alla modernità, quasi neppure la foto di un’attrice. Insomma, fortezza inviolabile, guardata dai romani con curiosità e rispetto. Pochi i privilegiati cui l’attore, scomparso diciassette anni fa, dischiudeva il cancello del suo mondo segreto. La sua collaboratrice Paola Comin racconta che dovette aspettare un paio d’anni prima che Sordi, anziché farla attendere davanti al cancello per recarsi insieme agli appuntamenti di lavoro, la invitasse su per un caffettino. La casa di Sordi ha vissuto due vite, ha raccontato spesso l’attore Carlo Verdone: “Prima del ’72 era frequentata. Sergio Amidei, Sonego, Piero Piccioni, Fellini, la Masina, Monica Vitti, Franca Valeri: c’erano cene, incontri, proiezioni, sono stati invitati tutti i sindaci di Roma, tanti cardinali. Anche Walter Matthau e Jack Lemmon ci sono stati. Ma in quell’anno morì Savina, la sorella più grande, e da allora fine delle serate. La casa per Alberto diventò una rocca in cui rinchiudersi e isolarsi. Del resto, come tutti

    La casa di Alberto Sordi.

    i grandi comici aveva un suo lato malinconico, e capisco anche il bisogno di silenzio per uno che per lavoro passa il tempo in mezzo alle cagnare. Io la sua casa la conoscevo solo in parte, il documentario è stata un’occasione per scoperte continue. Il teatro, per esempio, non sapevo nemmeno che ci fosse: una grande platea, un palco, la buca per il suggeritore, poltrone, luci, due proiettori. Ho scoperto la barberia: grande specchio, luci, poltrona da barbiere. E poi il roseto, la cucina immensa come quella di un hotel. La stanza in cui passava più tempo era lo studio. C’è la poltrona su cui, dopo la pennichella, leggeva i copioni. Mi ha raccontato Arturo, l’autista, che si precipitava nello studio ogni volta che sentiva un botto. Erano i copioni che Alberto buttava a terra: ‘Prendili, daje foco’, gli diceva. Serrande sempre abbassate e rigore: quella casa è il segno di quanto Sordi privato fosse diverso dall’immagine pubblica. Anche se, mi ha raccontato Pierina, la vecchia governante, la penombra era dovuta ai consigli dell’antiquario Apolloni, suo amico e insegnante d’arte. Gli aveva venduto molti degli arredi e dei quadri e diceva che per conservarli bene dovevano avere poca luce. Grandi quadri del Seicento e del Settecento, l’unico moderno è un De Chirico. Neppure una foto con le attrici, una sola di Soraya, con dedica. E poi immagini religiose, Giovanni Paolo II, crocifissi e tante Madonne. In giardino ce n’è una in una nicchia. Ogni mattina le portava una rosa, recitava una preghiera, poi andava a lavorare. La stanza da letto è la più spartana: il letto, una vecchia radio, niente televisore”.

    Roma, 7 marzo 2020

  2. “C’era una volta Sergio Leone”

    C’era una volta Sergio Leone”, è il titolo evocativo della grande mostra

    Sergio Leone con Federico Fellini.

    all’Ara Pacis con cui Roma celebra, a 30 anni dalla morte e a 90 dalla sua nascita, uno dei miti assoluti del cinema italiano. Il percorso espositivo racconta di un universo sconfinato, quello di Sergio Leone, che affonda le radici nella sua stessa tradizione familiare: il padre, regista nell’epoca d’oro del muto italiano, sceglierà lo pseudonimo di Roberto Roberti, e a lui Sergio strizzerà l’occhio firmando a sua volta “Per un pugno di dollari” con lo pseudonimo anglofono di Bob Robertson.
    Nel suo intenso percorso artistico Sergio Leone attraversa il “peplum”, ovvero il filone cinematografico storico-mitologico, riscrive letteralmente il “Western” e trova il suo culmine nel progetto di una vita: “C’era una volta in America”. A questo sarebbe seguito un altro film di proporzioni grandiose, dedicato alla battaglia di Leningrado, del quale rimangono, purtroppo, solo poche pagine scritte prima della sua scomparsa.
    Leone, infatti, non amava scrivere. Era, piuttosto, un narratore orale che sviluppava i suoi film raccontandoli agli amici, agli sceneggiatori, ai produttori, all’infinito, quasi come gli antichi cantori che hanno creato l’epica omerica. Ma ciò nonostante, il suo lascito è enorme, un’eredità creativa di cui solo oggi si comincia a comprendere la portata. I suoi film sono, infatti, “la Bibbia” su cui gli studenti di cinema di tutto il mondo imparano il linguaggio cinematografico, mentre molti dei registi contemporanei, da Martin Scorsese a Steven Spielberg, da Francis Ford Coppola a Quentin Tarantino, da George Lucas a John Woo, da Clint Eastwood ad Ang Lee continuano a riconoscere il loro debito nei confronti del suo cinema.
    Le radici del cinema di Sergio Leone affondano, naturalmente, anche nell’amore per i classici del passato – in mostra i film dei giganti del western, da John Ford ad Anthony Mann – e rivelano un gusto per l’architettura e l’arte figurativa che ritroviamo nella costruzione delle scenografie e delle inquadrature, dai campi lunghi dei paesaggi metafisici suggeriti da De Chirico, all’esplicita citazione dell’opera “Love” di Robert Indiana, straordinario simbolo, in “C’era una volta in America”, di un inequivocabile salto in un’epoca nuova.
    Per Leone la fiaba è il cinema. Il desiderio di raccontare i miti, il West, la Rivoluzione, l’America, utilizzando la memoria del cinema e la libertà della fiaba, entra però sempre in conflitto con la sua cultura di italiano che ha conosciuto la guerra e attraversato la stagione neorealista.
    A partire da “Per qualche dollaro in più” Leone può permettersi di assecondare la sua fascinazione per il passato e la sua ossessione documentaria per il mito curando ogni minimo dettaglio. Perché una favola cinematografica, per funzionare, deve convincere gli spettatori che quello che vedono stia accadendo realmente.
    Grazie ai preziosi materiali d’archivio della famiglia Leone e di Unidis Jolly Film i visitatori entreranno nello studio di Sergio, dove nascevano le idee per il suo cinema, con i suoi cimeli personali e la sua libreria, per poi immergersi nei suoi film attraverso modellini, scenografie, bozzetti, costumi, oggetti di scena, sequenze indimenticabili e una costellazione di magnifiche fotografie, quelle di un maestro del set come Angelo Novi, che ha seguito tutto il lavoro di Sergio Leone a partire da “C’era una volta il West”. Seguendo queste tracce, la mostra “C’era una volta Sergio Leone” è, quindi, suddivisa in diverse sezioni: “Cittadino del cinema”, “Le fonti dell’immaginario”, “Laboratorio Leone”, “C’era una volta in America”, “Leningrado e oltre”, dedicata all’ultimo progetto incompiuto, “L’eredità Leone”.
    Sarà inoltre pubblicato dalle Edizioni Cineteca di Bologna il volumeLa rivoluzione Sergio Leone”, a cura di Christopher Frayling e Gian Luca Farinelli.
    Dalla scheda di presentazione ufficiale della mostra pubblicata sul sito del Museo dell’Ara Pacis.

    Roma, 23 febbraio 2020

  3. Villa Torlonia e l’Orlando Furioso

    La storia di Villa Torlonia ha inizio nel 1673 quando la vigna, posta ad un miglio esatto da Porta Pia, venne acquistata dal cardinale Benedetto Pamphilj, un ecclesiastico davvero singolare, un mecenate che vantò, come ospiti, tra gli altri, musicisti quali Arcangelo Corelli e Georg Friedrich

    Villa Torlonia in un'incisione del 1842

    Villa Torlonia in un’incisione del 1842

    Handel. Quest’ultimo, in virtù del profondo rapporto d’amicizia che li legava, musicò per lui alcune Cantate i cui testi vennero scritti dal cardinale Pamphilj stesso. Ma non fu, questo, un caso isolato.
    Benedetto Pamphilj, infatti, amante della musica colta, scrisse anche libretti di opere poi musicate da Alessandro Scarlatti.
    Per esercitare al meglio queste sue prerogative di mecenate ed amante della musica, al fine di organizzare eventi mondani, il cardinale acquistò la proprietà nota con il nome di Vignola, posta poco distante da Porta Pia, ma molto meno estesa dell’attuale Villa Torlonia. In seguito, chiamò Giacomo Moraldo, Mattia de’ Rossi e Carlo Fontana affinché questi si occupassero della sua sistemazione e la rendessero un luogo ameno ed adatto a ricevimenti.
    Il casino principale, che si trovava nella posizione esatta in cui oggi sorge il Casino Nobile, aveva sale dipinte con paesaggi, uccelli e fiori. Era arredato con eleganza e aveva una loggia impreziosita da statue.
    Non sono molte le notizie che si possono reperire relative a questo periodo di storia della proprietà, delle sue architetture e dei suoi arredi. Ancora meno sono quelle riguardanti i cambiamenti avvenuti all’interno della villa quando i Colonna ne diventano i successivi proprietari.

    Casina delle Civette - Villa Torlonia

    Casina delle Civette – Villa Torlonia

    Testimonianze più complete, si hanno, invece, a partire dal 1797 quando la proprietà venne acquistata da Giovanni Torlonia, un personaggio che oggi verrebbe definito un “self made man”, il capostipite di quella che diventerà una delle famiglie nobiliari più ricche della città di Roma.
    La famiglia Torlonia manterrà, a far data dal 1797, la proprietà della villa per circa due secoli, periodo in cui, per mezzo dell’acquisizione di nuove proprietà, questa divenne più estesa, anche più di come la vediamo oggi. Tra i grandi architetti chiamati a dare un nuovo aspetto alla proprietà, appare Giuseppe Valadier, probabilmente uno dei pochi in grado di interpretare i desideri e le ambizioni di una famiglia che ormai poteva vantare principi e non solo marchesi.
    La villa di oggi, nell’interezza del parco e di una gran parte degli edifici, appare al visitatore dopo lunghi e attenti restauri resisi necessari dopo i danni prodotti dall’occupazione degli Alleati, tra il 1944 e il 1947, e il successivo abbandono in cui la villa cadde e rimase fino al 1978 quando il Comune di Roma l’acquistò dietro la pressione esercitata dai cittadini.

    La Serra Moresca - Villa Torlonia

    La Serra Moresca – Villa Torlonia

    I restauri non hanno certamente potuto restituirne l’originaria integrità, ma hanno permesso, comunque, di leggerne i complessi significati e le architetture del Parco e dei suoi edifici.
    La realizzazione di ciò che oggi è possibile vedere, almeno in parte, comincia nel 1828, quando la villa diviene proprietà di Alessandro Torlonia che chiama gli architetti Giovan Battista Caretti e Giuseppe Jappelli: il primo ad occuparsi della parte nord del giardino e degli edifici che qui insistevano o che qui dovevano essere realizzati, il secondo, vero architetto del verde, a realizzare un giardino all’inglese come quello che lo stesso Alessandro Torlonia aveva potuto ammirare quando era stato ospite di lord Hamilton a Pain’s Hill, giardino realizzato da William Kent, considerato l’architetto inglese iniziatore della moda del giardino paesistico inglese.
    Sia Caretti che Jappelli avranno un rapporto burrascoso con Alessandro Torlonia e con la nobiltà romana tutta, e, sebbene per motivi diversi, entrambi interromperanno il loro lavoro prima del suo completamento. Ciò nonostante, la parte dei rispettivi progetti effettivamente realizzata risulterà di tale dirompente bellezza da fare della Villa Torlonia un unicum mai imitato a Roma.

    La Capanna Svizzera - Incisione del 1842 - Villa Torlonia

    La Capanna Svizzera – Incisione del 1842 – Villa Torlonia

    In particolare, Jappelli, decide di realizzare nel settore sud del giardino una scenografia orientale, uno degli elementi che doveva essere presente in ogni giardino all’inglese. Tra le diverse possibilità e modelli “orientali” a cui potersi ispirare – cinese, indiano, giapponese, ecc… – Jappelli scelse di rifarsi al mondo arabo ed in particolare di farsi guidare dal testo dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. La narrazione inizia con quella che oggi conosciamo come la Casina della Civette, completamente irriconoscibile nella sua trasformazione in piccolo villaggio medievale risalente al 1920, ma inizialmente realizzata in forma di Capanna Svizzera/romitorio, che nella narrazione jappelliana diviene l’abitazione dell’Eremita, che Ludovico Ariosto pone su uno scoglio solitario nel Mediterraneo.
    Si passa poi ad una struttura non ancora restaurata: una grotta che svolgeva la funzione della tomba di Merlino nel romanzo cavalleresco. Il campo di Agramante, riassunto dall’insieme della Serra e della Torre Moresca (restaurate entrambe ma purtroppo non disponibili alla visita) e il Campo Cristiano, che corrisponde al Campo dei Tornei. Completavano la narrazione altri due ambienti: la selva e l’isola di Alcina.
    La selva, ovvero il boschetto in cui Angelica incontra Sacripante, oggi non è altro che un’area del parco dove la vegetazione ha preso il sopravvento e che risulta impossibile da attraversare,

    La Serra Moresca - Villa Torlonia

    La Serra Moresca – Villa Torlonia

    contraddicendo l’originaria impostazione di Jannelli, che aveva immaginato questa parte del parco ricca si di una vegetazione intricata, che suggeriva uno spazio in cui perdersi per poi ritrovarsi.
    L’isola di Alcina è invece andata completamente perduta. Il lago nella quale essa era stata realizzata fu infatti prosciugato alla fine dell’Ottocento e oggi al suo posto troviamo una piana alberata.
    La visita, che vuole anche ricordare il cinquecentenario della prima pubblicazione dell’Orlando Furioso, è un’occasione per far rivivere, in parte con la fantasia, in parte con la lettura dei brani che hanno ispirato Jappelli, i luoghi come l’architetto li aveva realizzati, a partire proprio dalla Casina delle Civette.

  4. Canova: eterna bellezza

    Antonio Canova e la città di Roma: è questo il tema della mostra-evento di Palazzo Braschi, con oltre 170 opere e prestigiosi prestiti da importanti

    Le Tre Grazie – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Musei e collezioni italiane e straniere. L’esposizione racconta in 13 sezioni l’arte canoviana e il contesto che lo scultore trovò giungendo nell’Urbe nel 1779. Attraverso ricercate soluzioni illuminotecniche, lungo il percorso espositivo è rievocata la calda atmosfera a lume di torcia con cui l’artista, a fine Settecento, mostrava le proprie opere agli ospiti, di notte, nell’atelier di via delle Colonnette. A definire la trama del racconto, importanti prestiti provenienti, fra l’altro, dall’Ermitage di San Pietroburgo, i Musei Vaticani, la Gypsotheca e Museo Antonio Canova di Possagno, il Museo Civico di Bassano del Grappa, i Musei Capitolini, il Museo Correr di Venezia, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, le Accademie di Belle Arti di Bologna, di Carrara e di Ravenna, l’Accademia Nazionale di San Luca, il Musée des Augustins di Tolosa, i Musei di Strada Nuova-Palazzo Tursi di Genova, il Museo Civico di Asolo. Dai tesori dei Musei Capitolini a quelli dei Musei Vaticani, dalle raccolte dei Farnese e dei Ludovisi ai marmi inseriti nel contesto urbano dell’epoca, furono tantissime le opere che l’artista – rapito dal loro fascino – studiò minuziosamente, rendendole testimoni e protagoniste del suo stretto rapporto con la città.

    Amore e Psiche – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    In mostra si ripercorrono gli itinerari compiuti dallo scultore alla scoperta di Roma, sin dal suo primo soggiorno. Sorprendenti, ad esempio, le sue parole di ammirazione nei confronti del gruppo di Apollo e Dafne di Bernini, visto a Villa Borghese, e riportate nei suoi Quaderni di viaggio.
    È inoltre possibile approfondire, attraverso la presentazione di disegni, bozzetti, modellini e gessi, anche di grande formato, il lavoro dell’artista per i grandi Monumenti funerari di Clemente XIV e di Clemente XIII, e per il Monumento agli ultimi Stuart; spicca tra essi, per la grande qualità esecutiva, il marmo del Genio funerario Rezzonico concesso in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo e il modellino del Monumento Stuart della Gypsotheca di Possagno. La mostra affronta anche il rapporto tra lo scultore e la letteratura del suo tempo: una piccola sezione è dedicata alla relazione tra Canova e Alfieri, la cui tragedia Antigone, andata in scena a Roma nel 1782, presenta più di uno spunto di riflessione in rapporto alla rivoluzione figurativa canoviana. Fieramente antigiacobino, Canova abbandonò Roma all’epoca della Repubblica alla fine del Settecento per rifugiarsi nella natia Possagno. Dipinti, sculture, disegni e incisioni documentano in mostra quel momento che vide la fine provvisoria del potere temporale del papato con l’esilio di Pio VI Braschi. Canova fu

    La Danzatrice – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    incaricato di scolpire la statua di Pio VI, da collocare inizialmente sotto l’altare della Confessione nella Basilica Vaticana, quindi spostata nelle Grotte Vaticane: in mostra – all’interno del palazzo edificato a fine Settecento proprio per i nipoti di Papa Braschi – è possibile ammirare un modellino per il monumento. Nell’ultima sala della mostra, uno dei marmi più straordinari di Canova: la Danzatrice con le mani sui fianchi, proveniente da San Pietroburgo. Gira sulla sua base, come Canova desiderava, per di più in un ambiente rivestito di specchi. Si ripete il mito di Pigmalione, innamorato della sua statua, Galatea, che si anima: da marmo diventa carne. Il percorso espositivo è arricchito da inedite installazioni multimediali appositamente progettate. Attraverso trenta fotografie di Mimmo Jodice che ritraggono i marmi di Antonio Canova, il pubblico può ammirare le opere dello scultore attraverso lo sguardo di uno dei più grandi maestri della fotografia. Jodice è riuscito a offrirne una rilettura del tutto inedita e sorprendente, creando una serie di immagini che si sono da subito imposte come una delle più emozionanti espressioni della fotografia contemporanea. Le immagini sono una vera e propria mostra nella mostra, offrendo un’occasione unica per accostarsi allo scultore guidati dalla

    Antonio Canova – Particolare – Mimmo Jodice.

    creatività di un grande artista di oggi. Poi, grazie all’apporto di Magister, un innovativo format espositivo che si prefigge l’obiettivo di promuovere la bellezza attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, rivitalizzandolo in chiave contemporanea, si può ammirare una riproduzione in scala reale del gruppo scultoreo di Amore e Psiche giacente di Antonio Canova. A partire da una scansione 3d del gesso preparatorio della scultura oggi esposta al Louvre di Parigi, un robot ha scolpito incessantemente per 270 ore un blocco di marmo bianco di Carrara di 10 tonnellate. L’installazione di grande potenza emotiva, ideata da Magister e realizzata in collaborazione con Robotor, apre una nuova sfida sui paradigmi della riproducibilità delle opere d’arte: la riproduzione è infatti da leggersi come forma di rispetto per il pensiero dell’artista ed esprime l’aspirazione contemporanea a valorizzarne ancora una volta l’estro creativo.
    Ad accompagnare l’installazione, un documentario sulla realizzazione

    Paride – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    dell’opera e un racconto video della fiaba di Amore e Psiche di Apuleio, in un percorso tra spettacolo e approfondimento, un racconto sui testi di Giuliano Pisani, con la voce di Adriano Giannini e la musica originale del violoncellista Giovanni Sollima.
    Ma chi è stato Antonio Canova? Senza dubbio il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo e l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come

    Venere – Antonio Canova – Mimmo Jodice

    oggetti puri ed incontaminati secondo i principi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: Teseo sul Minotauro, Amore e Psiche, Ercole e Lica, Le Tre Grazie; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria.
    Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche sono scoperti e immediati: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di Teseo sul Minotauro. Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papi

    Damosseno – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria – in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide – e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepolcri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di

    Orfeo – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie.

    Roma, 12 gennaio 2020