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  1. Testaccio/2.

    Sulle tracce di Ida e Useppe

    I luoghi della "Storia" di Elsa Morante

    Elsa Morante

    Elsa Morante

    «Solo chi ama conosce». La frase di Elsa Morante campeggia da tempo sul muro dell’asilo nido comunale “La Casa dei bambini” di via Amerigo Vespucci 41, a Testaccio. Qui, all’inizio del ‘900, oltre all’asilo c’erano il deposito delle biciclette, la stanza del bucato e il deposito dell’immondizia di un grande palazzo. E proprio in quest’angolo, l’immensa scrittrice romana – capace come pochi di raccontare l’infanzia – autrice de La StoriaL’Isola di Arturo e Il mondo salvato dai ragazzini ha giocato, s’è riparata sotto la palma che ormai è arrivata fino al quinto piano di quel palazzone «unica sua flora… alto e scolorato palmizio». Dalla finestra del suo appartamento, alla scala IV, ha visto crescere un giovane alloro e un grande albero ombroso, spalancando sul mondo il suo sguardo di bambina. È in questo palazzone popolare che Elsa Morante ha vissuto i primi dieci anni della sua vita, essendo venuta al mondo poco lontano da lì, il 18 agosto del 1912, in via Anicia  a Trastevere. Proprio a pochi metri da via Amerigo Vespucci vagabondavano Useppe e la sua compagna Bella «in libera uscita nel quartiere Testaccio e dintorni», tra via Bodoni, via Marmorata, il Lungotevere e il ponte Sublicio. In queste strade sono ambientate le scorribande del bambino e della sua grande e maestosa “cana” bianca nella primavera-estate del 1947 narrate ne La Storia. «Col presente libro» scrive la Morante «io, nata in un punto di orrore definitivo (ossia nel nostro Secolo Ventesimo), ho voluto lasciare testimonianza documentata della mia esperienza diretta, la Seconda Guerra Mondiale, esponendola come un campione estremo e sanguinoso dell’intero corpo storico millenario. Eccovi dunque la Storia, così come è fatta e come noi stessi abbiamo contribuito a farla». Al centro, temporale e psicologico, della Storia c’è lo spartiacque del bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio del 1943 che trasformò completamente il volto della città trasformando in “sfollati” moltissimi dei suoi abitanti.

    La Scuola dei Bambini - Via Vespucci 41 - Roma

    La Scuola dei Bambini in Via Vespucci 41 – Roma

    È anche la sorte di Ida, la mamma di Useppe che, dopo un breve passaggio per Pietralata, arriverà con figlio e “cana” al Testaccio: un luogo che a lei appare come abitato da uomini cattivi e violenti, che lavoravano al mattatoio tra il sangue e le viscere degli animali e passavano il resto del tempo all’osteria. Scorrendo le righe de La Storia e utilizzandole come una sorta di guida del quartiere, oggi si scopre una realtà molto diversa, dove una buona politica e esperienze sociali differenti ma non contrapposte hanno dato vita a forme di vita solidali, anche grazie alla partecipazione attiva dei Testaccini.

    L’itinerario che proponiamo parte da un luogo non canonico: Piazza di Porta Portese infatti fa “tecnicamente” parte di Trastevere, ma in realtà è una sorta di terra di mezzo.

    La casa di Ida ed Useppe - Via Bodoni 82

    La casa di Ida ed Useppe – Via Bodoni 82

    Da lì, attraversando quel ponte Sublicio su cui la Morante fa correre felice Useppe, la sua balia canina Bella e il suo amico Davide, si potrà godere la vista della porta elegante del Testaccio che introduce alla zona residenziale, nata per ospitare le famiglie borghesi a debita distanza  da quelle operaie che occupavano invece i fabbricati a blocco chiuso, dall’aria malsana e dalla scarsa luce, che furono costruiti nella parte più centrale del quartiere, estendendosi fino al Mattatoio. Raggiungeremo poi  Piazza Testaccio, di recente riportata alla sua fisionomia iniziale, dove fa bella mostra di sé la Fontana delle Anfore.

    Roma,  6 maggio 2017

  2. Basilica di Santa Francesca Romana o di Santa Maria Nova

    La basilica vanta una doppia dedicazione: a Santa Francesca Romana, perché qui è sepolta, dal 1440, la grande santa romana; e a Santa Maria Nova, eretta nella seconda metà del IX secolo sulle rovine di Santa Maria Antiqua, una chiesa del VI secolo crollata in seguito ad un terremoto:

    Santa Francesca Romana – visione dal Foro Romano.

    preziosissimo gioiello di architettura e pittura cristiana, alle pendici del Palatino, da qualche anno riaperta al pubblico dopo decenni di restauri.
    Santa Francesca Romana/Santa Maria Nova sorge dove nell’antichità si alzava il colossale Tempio di Venere e Roma, fatto costruire dall’imperatore Adriano nel 135.
    Il tempio si trovava nel punto in cui si trovava l’atrio della Domus Aurea con il famoso Colosso, la gigantesca statua di Nerone che secondo alcuni studiosi avrebbe dato il nome al Colosseo e che fu fatta spostare proprio da Adriano per erigere il tempio. Dell’antico tempio si possono ancora vedere esternamente le colonne intorno all’area della chiesa.
    Per edificare, dunque, Santa Maria Nova venne incorporato un precedente Oratorio dei SS. Pietro e Paolo che, dal secolo precedente, si era inserito proprio dentro il porticato del Tempio di Venere e Roma in corrispondenza con la cella della Dea Roma. L’oratorio sarebbe sorto sul posto della singolare disfida a volare lanciata dallo eresiarca Simon Mago contro

    Santa Francesca Romana – Interno.

    l’apostolo Pietro. La preghiera di questi avrebbe ottenuto di far precipitare a terra Simone che si era librato in aria per arti magiche. La chiesa venne ricostruita nel 1216 da Onorio II e nel 1615 ricevette la bianca facciata di travertino con un timpano ornato di statue, opera di Carlo Lambardi. Il campanile romanico, del XII secolo è alto 42 metri, è ornato a ciotole di maiolica e ha negli ultimi tre piani a doppie bifore, in alto c’è una piccola edicola.
    Dal Seicento — in seguito alla avvenuta traslazione dal monastero di Tor de’ Specchi del corpo di santa Francesca Romana, una Bussi, sposa di un Ponziani, che in quella chiesa aveva fondato le sue “oblate” — la chiesa ha cambiato il nome. E poiché la santa è stata proclamata patrona degli automobilisti, nacque, qualche decennio fa, la consuetudine — oggi dimenticata — di benedire, ogni anno, il 9 marzo, festa di Francesca Romana, le automobili radunate sul piazzale del Colosseo.
    Dopo la liberazione della zona del Foro da tutte le costruzioni e dalle sovrastrutture che l’avevano invasa nel corso dei secoli, questa chiesa, insieme con la meravigliosa Santa Maria Antiqua, è ormai l’unica

    Santa Francesca Romana – Mosaico dell’abside.

    sopravvivenza di costruzione non di epoca classica e la più visibile testimonianza dei secoli cristiani al cospetto dell’antico Foro.
    Tuttavia la nobiltà delle sue linee, lo snello e forte campanile dei tempi più ferrigni e l’ariosa facciata dell’epoca barocca la inseriscono nell’ambiente secondo una superiore armonia. La facciata luminosa si erge su un profondo porticato, creato alla maniera di un protiro davanti al corpo della vecchia chiesa. La parte centrale di essa si stacca dalle due ali, che sono segnate dalla voluta delle statue, ed appare come un corpo leggermente avanzato. Esso è costruito da due gigantesche coppie di lesene che si alzano fino al timpano coronato da tre statue. Fra le lesene è inserita con un forte effetto di chiaroscuro una zona costituita da un alto arcone e da una loggia sovrapposta.
    L’interno, dalla semplice pianta, con cappelle laterali che fiancheggiano una aula piena di decorazioni e di colore, si apre come un luogo estremamente accogliente per chi proviene dalla distesa delle antiche rovine del Foro.
    La piacevole sensazione di insieme è data dal seicentesco soffitto a

    Madonna Odigitria – Santa Francesca Romana.

    cassettoni policromi cui corrisponde, al centro del pavimento, un ampio riquadro cosmatesco, residuo della schola cantorum, dalla confessione a marmi policromi, realizzata da Bernini fra il 1638 e il 1649, e dallo sfolgorante brano di mosaico rimasto nel catino absidale. Questo raffigura la “Vergine in trono con il Bambino”, affiancata da Santi e risale al 1161, dimostrando una scioltezza di movimento che sta per liberarsi dalla rigidità bizantina. Il mosaico è quanto avanza dalle abbondanti decorazioni musive che rivestiva l’intera abside e l’arcone trionfale e che è sostituita attualmente da affreschi seicenteschi nell’abside e ottocenteschi, di Cesare Maccari, nell’arco.
    Sulla destra del presbiterio molto elevato — al quale si accede con due rampe barocche — è sito il sepolcro eretto dal Popolo Romano nel 1584 a papa Gregorio XI che riportò da Avignone a Rona la sede del papato. Qui vicino si mostrano due pietre di basalto con le impronte che vi avrebbe lasciato san Pietro inginocchiato per chiedere la punizione del Mago, fonte di scandalo.
    Nel tabernacolo dell’altar maggiore è collocata un’immagine della Madonna del XII secolo, ritrovata sotto le ridipinture ottocentesche di una tavola giunta dall’Oriente. Ma la stessa immagine è stata a sua volta distaccata nel 1950 dal geniale restauratore Pico Cellini, che riconobbe un’altra immagine sottostante, di epoca ancora più antica: nientemeno del secolo V.

    Santa Francesca Romana.

    Quest’immagine rappresenta il vero tesoro, inestimabile, della Basilica: si tratta della icona che rappresenta la Vergine Odigitria, cioè “colei che indica la strada”. E la strada, la via, la verità e la vita è quel Gesù Bambino che tiene in braccio.
    Così racconta Pico Cellini, scomparso nel 2005, il momento del riconoscimento dell’antichissima icona. Di questa “avventura”, come la definisce Cellini, il decano dei restauratori italiani scomparso nel 2005, parla in un’intervista rilasciata nel 1990. Nell’anno santo del 1950 gli viene affidato l’incarico di restaurare un’antica icona della Vergine Maria presente nella chiesa di Santa Francesca Romana. Un’immagine «molto rimaneggiata e ridipinta lungo i secoli», ricorda. Che presentava una particolarità: «I volti della Madonna e del Bambino tendevano a staccarsi dalla tavola».
    «Quale studioso di immagini mariane e profondamente devoto della Madonna», ricorda il restauratore, egli fu «ben felice» dell’incarico, come anche del fatto che gli fu data licenza di portare l’immagine sacra a casa.

    Santa Francesca Romana.

    «Qui, prima di incollare l’immagine al supporto, volli verificare se era vero, come sospettavo, che la causa del distacco fosse da ricercare in uno strato sottostante di pittura diverso per natura e colore. Con infinita cura riuscii a staccare i bordi dei due volti, che stranamente apparivano isolati rispetto al resto del dipinto, e una volta sollevato quella specie di coperchio, per poco non mi prese un accidente: sotto la testa della Vergine ne emerse infatti una seconda, enorme, con due grandi occhi dallo sguardo ipnotico. Era il volto, mirabilmente intatto, di un’immagine molto più antica di quella attribuita all’inizio del XII secolo, che traspariva sotto le grossolane ridipinture ottocentesche: per la tecnica ad encausto su tela di lino e altre caratteristiche che non sto qui ad elencare, fui in grado di datarla addirittura al primo quarto del V secolo. Essa rispecchiava una tecnica raffinatissima e una committenza prestigiosa, quella della stessa corte imperiale di Bisanzio: era una immagine carica di arte, di fede e di storia giunta in Occidente attraverso chissà quali tumultuose vicende. Spesso mi son chiesto come mai questa Madonna produce una tale emozione, specie in chi la contempli per la prima volta. La spiegazione, forse, è in quei grandi occhi dalla pupilla dipinta in nero, colore che – secondo i canoni dell’arte ellenistica – indica il limite

    Santa Francesca Romana.

    della conoscenza. Quello di Maria non è uno sguardo rivolto all’esterno, ma è tutto interiore: attinge l’abisso dell’inconoscibile, in cui dimora Dio, abisso che lei sola vede». Dopo il ritrovamento dell’icona, il grande restauratore si recò ogni domenica nella basilica di Santa Francesca Romana per assistere alla messa, per poi raccogliersi in preghiera davanti all’immagine. E “presentare” ai fedeli convenuti quel volto della Madonna rimasto celato a tante generazioni, i cui grandi occhi avevano svelato d’incanto gli ultimi segni della bellezza antica e i tratti somatici della Vergine Maria descritti da san Luca nel suo vangelo, autore, secondo la tradizione, di molti suoi ritratti. A confermare la datazione e la provenienza dell’immagine entrò in gioco un altro mostro sacro: Margherita Guarducci, epigrafista greca di fama mondiale e accademica dei Lincei, che da lì a poco avrebbe rintracciato le reliquie di san Pietro nella necropoli vaticana. In breve, la studiosa osservò come l’icona apparsa alla luce presentasse caratteristiche che si ritrovavano stranamente in un’altra famosa immagine, ritenuta perduta: quella della Madona Odigitria di Costantinopoli, creata tra il 438 e il 439 quale tipo ufficiale di Maria Madre di Dio, una definizione che era emersa e consegnata alla Chiesa nel Concilio

    Santa Francesca Romana.

    di Efeso del 431. Un’immagine, quella di Costantinopoli, che la tradizione attribuiva all’iconografia propria dell’evangelista Luca, e fatta realizzare in Palestina – ad encausto e su disco ligneo – da Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II. Notevole anche il fatto che le dimensioni dell’icona costantinopolitana corrispondessero a quelle romane.
    Ma c’era di più: pare che gli imperatori dell’Occidente avessero portato a Roma, sempre nel 439, una copia su tela della Odigìtria, eseguita sull’impronta rovesciata – ottenuta per calco speculare – dell’originale. Da questo calco deriverebbe dunque l’immagine romana, che infatti vede invertita la posizione del Bambino Gesù: sul braccio destro di Maria invece che sul sinistro, come normalmente rappresentato. Proseguendo le sue ricerche, la Guarducci si imbatté in una splendida ed enorme icona mariana esistente a Montevergine, celebre santuario dell’avellinese. L’opera, eseguita tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, raffigura la Madonna in trono col Bambino e presenta una particolarità: la testa di Maria è leggermente sporgente dal resto della tavola e inclinata verso chi osserva dal basso.

    La Basilica di Massenzio e Santa Francesca Romana – Canaletto – 1753/1754.

    Esami condotti tra il ’60 e il ’61 accertarono che essa è dipinta su un disco di legno di tipo diverso dal resto della tavola, e che dal dipinto medievale traspaiono tracce di una pittura più antica. E in effetti, una tradizione risalente al ’500 vuole che questa sia l’autentica testa della famosa Odigìtria perduta, in realtà trafugata da Baldovino II, ultimo imperatore latino d’Oriente, allorché fuggì da Costantinopoli nel 1261. Il volumetto La più antica icona di Maria della Guarducci documenta la singolare scoperta: «A Montevergine rimane la testa autentica della Odigìtria, se pure sotto il velo della pittura medievale; a Roma splende la medesima testa, nella copia fedele che subito ne fece, “in controparte”, un grande artista di Costantinopoli. Fra Oriente e Occidente si pone ora, quale prodigioso vincolo di pace, la più antica icona di Maria, che dell’Oriente e dell’Occidente ha ricevuto, per tanti secoli, la fervida preghiera». L’antichissima immagine dell’Odigitria è esposta nella sagrestia della basilica di Santa Francesca Romana. Non sorprende che fu proprio ai piedi di tale icona che, il 15 agosto 1425, santa Francesca Romana e le sue prime compagne fecero la loro oblazione al Signore. Alla morte della santa, il suo corpo fu deposto nella cripta della chiesa, che da quel momento prese anche il nome della veneratissima Francesca, come è più nota oggi, compatrona di Roma insieme a Pietro, Paolo e Filippo Neri.

    Roma, 20 novembre 2019

  3. Foro Romano IV. L’età imperiale

    Dopo le prime tre passeggiate al Foro Romano in età arcaica, regia e repubblicana, la quarta è dedicata alle trasformazioni avvenute in età imperiale.

    La Curia Iulia nel Foro Romano.

    Alla fine della Repubblica, quando Roma è ormai capitale di un impero che si estende dalla Gallia alla Siria, l’antico Foro repubblicano appare ormai insufficiente alle funzioni di centro amministrativo e di rappresentanza della città. Il primo a dare inizio alla costruzione di un nuovo complesso monumentale, che è presentato all’inizio come un semplice ampliamento dell’antico, è Giulio Cesare, fin dal 54 avanti Cristo. I successivi interventi del dittatore nell’antica piazza repubblicana sono radicali: scompare praticamente il Comizio, sostituito in parte dal Forum Iulium, mentre l’antica sede del Senato, la Curia Hostilia, ricostruita in una nuova posizione, si trasforma, significativamente, in un’appendice del nuovo foro, Curia Iulia. La Basilica Giulia, ricostruzione assai più imponente dell’antica Sempronia, e il rifacimento della Basilica Fulvia-Emilia concludono la ristrutturazione integrale dei lati lunghi della piazza.
    La politica edilizia di Augusto, più prudente e oscillante, non può che tener conto di questa rivoluzione: il secondo lato corto della piazza, verso Est, viene occupato dal tempio del dittatore divinizzato, preceduto dai Rostri che fanno da pendant all’antistante tribuna, la quale ha sostituito, già con Cesare, i più antichi Rostra repubblicani.

    Curia Iulia nel Foro Romano – Particolare del pavimento.

    Le necessità propagandistiche e dinastiche, che man mano si andranno determinando, condizioneranno i successivi interventi: un Arco partico – forse in seguito dedicato ai nipoti del principe, Gaio e Lucio Cesare, addossato al lato Nord del Tempio del Divo Giulio e contrapposto all’Arco Aziaco di Augusto, che sorge sull’altro lato – prefigura suggestivamente la successione all’Impero, di cui i due giovani erano destinati. Dopo la loro morte prematura, ha inizio un’intensa attività del nuovo erede, Tiberio, al quale si debbono la ricostruzione dei templi dei Castori e della Concordia. Lo stesso Tiberio, già imperatore, innalzerà un arco accanto alla facciata del Tempio di Saturno. Attraverso il rispetto formale per la tradizione, tipico della politica di Augusto, traspare il desiderio di impadronirsi di essa per strumentalizzarla a fini dinastici, come si può constatare con ancora più cara evidenza nel Foro di Augusto. La piazza del Foro, ormai privata della funzione politica originaria, si trasforma in uno sfondo di rappresentanza destinato a esaltare il prestigio della dinastia.

    Il Foro di Augusto. Situazione attuale.

    La struttura conferita alla piazza dall’opera di Augusto restò a lungo immutata: le inserzioni di nuovi edifici, come il Tempio di Vespasiano e quello di Antonino e Faustina, si adattarono, senza modificarla, alla struttura augustea. Solo Domiziano, in significativa coincidenza con la sua politica marcatamente monarchica, osò per primo inserire un elemento di rottura: la sua gigantesca statua equestre al centro della piazza, che divenne così quasi una mera cornice per il monumento destinato a esaltare il dominus et deus.
    Solo a partire dal III secolo dopo Cristo l’area del Foro fu di nuovo invasa da costruzioni ingombranti: l’arco e la statua equestre di Settimio Severo e poi soprattutto le sette colonne onorarie sul lato meridionale, i monumenti commemoranti i decenni della Tetrarchia, i nuovi rostra sul lato orientale della piazza: tutto ciò è in relazione con i grandi lavori di rifacimento successivi al violento incendio di Carino, 283 dopo Cristo. La Colonna di Foca, del 608 dopo Cristo, probabilmente nient’altro che la riedificazione all’imperatore bizantino di un monumento già esistente, chiude la storia del Foro e costituisce ormai la testimonianza di una nuova epoca, già avviata con la trasformazione di molti edifici pagani in santuari cristiani: la Curia Iulia diviene Sant’Adriano, VII secolo dopo Cristo, mentre altre chiese si installano tutt’intorno all’area, da Santa Maria Antiqua ai Santi Cosma e Damiano.

    Roma, 13 novembre 2019

  4. Gianicolo e Montorio, due nomi per un unico colle. Storia e arte di un luogo incantato.

    “Gianicolo” è nome legato alla tradizione più antica della fondazione della città di Roma. Qui, secondo fonti, tra cui Virgilio, vi si

    Panorama di Roma dal Gianicolo. Sullo sfondo a sinistra si scorge il sistema dei monti Sabini – Lucretili, al centro i monti Tiburtini – Prenestini e sulla destra i Colli Albani.

    praticava il culto di Giano, antico re del Lazio. Costui qui avrebbe fondato la sua città, ove avrebbe accolto e nascosto Saturno cacciato dal cielo, prima che questi si costruisse una rocca al Campidoglio.
    Di fatto, di tale prima fondazione non vi è alcuna traccia, così come non vi è attestata nessuna presenza di un tempio dedicato a Giano, se si eccettuano i resti di un piccolo sacello dedicato a suo figlio Fons, presso cui la tradizione poneva anche il sepolcro di Numa.
    Esiste poi la possibilità, attestata da almeno tre epigrafi, che sul colle ci fossero, prima della fondazione di Roma, septem pagi, cioè sette villaggi, sopraffatti poi dagli Etruschi. Gli abitanti dei sette insediamenti avrebbero poi attraversato il Tevere, raggiungendo la riva sinistra, contribuendo così alla fondazione della città sui colli. Secondo Plutarco questi septem pagi erano sette villaggi che Romolo avrebbe conquistato nella guerra contro i Veienti, e con essi anche l’accesso e il controllo delle Saline presso la foce del Tevere.

    San Pietro in Montorio – Facciata.

    Secondo il grammatico romano Sesto Pompeo Festo, il nome “Gianicolo” deriverebbe invece da ianua, cioè porta, per via del suo ruolo di raccordo e passaggio per l’Etruria. È noto che il colle e la pianura di Trastevere appartennero per qualche tempo agli Etruschi, e quando il Gianicolo fu conquistato dalle tribù latine, Anco Marcio — secondo la tradizione riportata da Livio — vi costruì una rocca dalla quale, issando un drappo rosso, veniva segnalato tempestivamente alla città l’arrivo dei nemici. In questa maniera si aveva il tempo di opporre una prima resistenza, a cui seguiva l’efficace difesa delle tribù sull’altra riva del Tevere.
    Il presidio militare veniva rafforzato quando nel Campo Marzio si tenevano i comizi centuriati ai quali partecipavano tutti gli uomini atti alle armi, e la città rimaneva, per questo motivo, senza difesa.
    Quest’accorgimento non impedì tuttavia i ripetuti attacchi da parte degli Etruschi alla città, il più noto dei quali è quello che vide Orazio Coclite combattere gli Etruschi di Chiusi guidati dal loro lucumone Porsenna sul ponte Sublicio, mentre questo veniva smontato alle sue spalle.
    Ma anche quando il pericolo etrusco cessò, dopo la presa di Veio, nel 396 avanti Cristo, il Gianicolo mantenne ugualmente la sua funzione strategica.
    Durante le guerre civili, che segnarono la fine della Repubblica, i partiti se ne contesero il possesso e di lì Mario e Lucio Cornelio Cinna intrapresero l’assalto a Roma, che si concluse con le stragi dei sillani.

    Primo itinerario di Einsiedeln.

    Quando divenne concreta la minaccia dei barbari, Aureliano, il costruttore delle imponenti mura, incluse anche il Gianicolo nel sistema difensivo della città. Nel caso del Gianicolo, il sistema difensivo iniziava dal ponte di Agrippa, attuale ponte Sisto, correva poi parallelamente all’attuale via Garibaldi, saliva fino all’attuale porta San Pancrazio, una volta detta Aurelia, e quindi scendeva congiungendosi alla Porta Portese antica, situata ad un centinaio di metri più avanti da quella attuale.
    Questo sistema difensivo, che aveva il compito di proteggere anche Trastevere, rimase inalterato fino al 1642, quando Urbano VIII volle fortificare ulteriormente queste strutture difensive a seguito dell’esito negativo della guerra di Parma contro i Farnese. In questa occasione le mura vaticane furono collegate con queste del Gianicolo e quindi alla Porta Portese, che nel frattempo venne arretrata e spostata nella posizione attuale.
    Si hanno testimonianze molto chiare del fatto che il Gianicolo sia stato sempre scarsamente abitato e questa condizione viene messa in relazione con il fatto che sul colle scarseggiava l’acqua potabile.

    Tempietto del Bramante

    Augusto, nel 2 avanti Cristo infatti costruì un acquedotto che trasportava l’acqua Alsienita, ovvero quella del lago di Martignano, citata erroneamente anche nell’iscrizione del Fontanone. Si trattava di acqua non potabile, utilizzata solo per irrigare gli orti, in particolare quello di Cesare.
    Nel 109 dopo Cristo, Traiano fece costruire un nuovo acquedotto che proveniva da Bracciano: aveva una mostra dell’acqua all’altezza dell’attuale Villa Sciarra e faceva arrivare in città, in particolare a Trastevere, acqua potabile. Questa stessa acqua alimentava i mulini e diverse attività artigiane che, a partire dal governo di Traiano, caratterizzarono l’area di Trastevere.
    Quando i barbari di Vitige e Belisario tagliarono gli acquedotti, anche quello di Traiano venne interrotto e l’acqua non alimentò più né Trastevere, né i mulini. Nel Medioevo la vita della città si addensò lungo il corso del fiume e anche i mulini si trasferirono sul Tevere, caratterizzando il paesaggio romano fino alla costruzione dei muraglioni, quando vennero tutti smantellati. I mulini rimasero quindi in uso fino alle fine dell’Ottocento.
    Sebbene non sia mai stato identificato il tempio dedicato a Giano, altri luoghi sacri erano presenti sul colle, ad esempio il bosco della Furrina, in cui Caio Gracco si fece uccidere dal suo servo, e sul quale, probabilmente, verrà edificato il Tempio Isiaco che oggi si può vedere nell’area di Villa Sciarra.

    Cristo alla colonna – Sebastiano del Piombo – San Pietro in Montorio.

    Nel Medioevo si afferma un’altra indicazione per il Gianicolo: esso fu denominato mons aureus dal colore degli strati affioranti di sabbia dorata. È possibile che questa caratteristica sia ricordata anche nell’itinerario di Einsidieln, un testo risalente all’VIII secolo dopo Cristo ad uso e consumo dei pellegrini che dovevano muoversi all’interno della città di Roma. L’estensore attraversa il Gianicolo per raggiungere San Cosimato e San Giovanni della Malva, e indica il colle con il nome di mica aurea.
    Il toponimo Montorio, fa quindi riferimento all’origine geologica del monte: può sorprendere infatti sapere che circa 2 milioni di anni fa qui lo spazio era occupato dal mare. Sulle argille azzurre depositate dalla sedimentazione marina si sono poi andate ad accumulare arenarie e sabbie di duna, che testimoniano il progressivo ritiro del mare. La natura del luogo lentamente cambia diventando quella di una formazione prima costiera e quindi continentale. Ancora oggi è possibile notare gli affioramenti delle sabbie originarie ad esempio sotto le mura proprio in prossimità della chiesa di San Piero in Montorio, all’interno dell’Orto Botanico o dentro Villa Lante.

    Decorazioni barocche della bottega del Bernini nel tempietto del Bramante.

    Questa iniziale formazione geologica verrà poi quasi completamente coperta dalle lave delle eruzioni del vulcano Sabatino, ovvero dei monti Volsini e Cimini, e dei Colli Albani, che si trasformeranno nel tufo, uno dei principali materiali da costruzione utilizzato a Roma.
    Sulle lave dei due sistemi vulcanici, la cui vicinanza alla città può essere facilmente verificata affacciandosi dal piazzale Garibaldi, poi sedimenteranno ancora le ghiaie e le sabbie portate a valle dall’antico corso del Tevere.
    La lunga formazione geologica che è stata brevemente descritta dà conto del particolare aspetto a terrazzamenti del colle: la piazza antistante San Petro in Montorio, quella più in alto del Fontanone, il Piazzale Garibaldi sono dei naturali balconi che si sono venuti a formare sulla cima delle dune di sabbia.
    Questa particolare natura geologica è però anche causa della instabilità dei versanti del colle, e poiché essa è comune al Campo Vaticano e a Monte

    Un convoglio passa sul ponte ferroviario della Valle delle Fornaci.

    Mario, fu una delle cause che concorsero al crollo delle torri della basilica di San Pietro e che furono motivo di onta per Bernini.
    Le argille azzurre risalenti a 2 milioni di anni fa affioranti venivano utilizzate nelle fornaci disseminate ai piedi del colle del Gianicolo.
    Dalle cave ai piedi del Gianicolo a partire dal II secolo avanti Cristo verrà cavato il tufo di Monteverde, detto anche cappellaccio. Con questo tufo furono edificati alcuni importanti edifici della Roma antica tra quali alcuni tratti delle Mura Serviane, oppure nella costruzione di alcune parti del teatro di Ostia antica.
    Ma il Gianicolo, per la sua vicinanza al Campo Vaticano, intreccia la sua storia con quella del martirio e della crocifissione di San Pietro. Non è nota la parte più antica della tradizione e come questa si sia stabilita nel tempo, quello che è noto è che a lungo il Gianicolo è stato ritenuto il luogo del martirio di Pietro.
    Analogamente non è nota in dettaglio la storia della piccola chiesa sorta su una delle terrazze naturali. Ne viene per la prima volta ricordata l’esistenza nel Liber Pontificalis nel IX secolo dopo Cristo. Si sa poi che nel 1130 con

    Una delle fornaci in funzione fino ai primi anni Sessanta del Novecento.

    una bolla di Innocenzo VIII, il monastero e la chiesa vengono inglobati nei possedimenti dei monasteri benedettini di San Pancrazio e San Clemente. Prima del 1280 passa ai Celestini e quindi, in epoca non precisata, ai Fratelli Ambrosiani, i quali, una volta trasferitisi a San Pancrazio, la cedettero alle monache benedettine, le quali si estinsero nel corso del XV secolo.
    Sisto IV con una bolla del 1472 e poi con una successiva del 1481 concesse la chiesa, il convento e un ampio pezzo di terreno al beato Amedeo Menez da Silva e alla sua congregazione francescana detta degli Amadeiti, dal nome Amedeo. Sarà Amedeo Menez da Silva che, visto lo stato di completa fatiscenza di chiesa e convento, a partire proprio dal 1481, provvide ad opere di restauro che compresero l’abbattimento della vecchia chiesa e la ricostruzione della nuova.
    Vasari afferma che la ricostruzione della chiesa venne fatta da Baccio Pontelli, ma di ciò non c’è alcuna altra testimonianza. L’impegno economico fu di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, e saranno proprio i reali di Spagna a chiamare Bramante a costruire il tempietto lì dove, secondo la tradizione quattrocentesca, era avvenuto avvenuto il martirio di San Pietro.

    Roma, 13 novembre 2019