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  1. Canova: eterna bellezza

    Antonio Canova e la città di Roma: è questo il tema della mostra-evento di Palazzo Braschi, con oltre 170 opere e prestigiosi prestiti da importanti

    Le Tre Grazie – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Musei e collezioni italiane e straniere. L’esposizione racconta in 13 sezioni l’arte canoviana e il contesto che lo scultore trovò giungendo nell’Urbe nel 1779. Attraverso ricercate soluzioni illuminotecniche, lungo il percorso espositivo è rievocata la calda atmosfera a lume di torcia con cui l’artista, a fine Settecento, mostrava le proprie opere agli ospiti, di notte, nell’atelier di via delle Colonnette. A definire la trama del racconto, importanti prestiti provenienti, fra l’altro, dall’Ermitage di San Pietroburgo, i Musei Vaticani, la Gypsotheca e Museo Antonio Canova di Possagno, il Museo Civico di Bassano del Grappa, i Musei Capitolini, il Museo Correr di Venezia, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, le Accademie di Belle Arti di Bologna, di Carrara e di Ravenna, l’Accademia Nazionale di San Luca, il Musée des Augustins di Tolosa, i Musei di Strada Nuova-Palazzo Tursi di Genova, il Museo Civico di Asolo. Dai tesori dei Musei Capitolini a quelli dei Musei Vaticani, dalle raccolte dei Farnese e dei Ludovisi ai marmi inseriti nel contesto urbano dell’epoca, furono tantissime le opere che l’artista – rapito dal loro fascino – studiò minuziosamente, rendendole testimoni e protagoniste del suo stretto rapporto con la città.

    Amore e Psiche – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    In mostra si ripercorrono gli itinerari compiuti dallo scultore alla scoperta di Roma, sin dal suo primo soggiorno. Sorprendenti, ad esempio, le sue parole di ammirazione nei confronti del gruppo di Apollo e Dafne di Bernini, visto a Villa Borghese, e riportate nei suoi Quaderni di viaggio.
    È inoltre possibile approfondire, attraverso la presentazione di disegni, bozzetti, modellini e gessi, anche di grande formato, il lavoro dell’artista per i grandi Monumenti funerari di Clemente XIV e di Clemente XIII, e per il Monumento agli ultimi Stuart; spicca tra essi, per la grande qualità esecutiva, il marmo del Genio funerario Rezzonico concesso in prestito dall’Ermitage di San Pietroburgo e il modellino del Monumento Stuart della Gypsotheca di Possagno. La mostra affronta anche il rapporto tra lo scultore e la letteratura del suo tempo: una piccola sezione è dedicata alla relazione tra Canova e Alfieri, la cui tragedia Antigone, andata in scena a Roma nel 1782, presenta più di uno spunto di riflessione in rapporto alla rivoluzione figurativa canoviana. Fieramente antigiacobino, Canova abbandonò Roma all’epoca della Repubblica alla fine del Settecento per rifugiarsi nella natia Possagno. Dipinti, sculture, disegni e incisioni documentano in mostra quel momento che vide la fine provvisoria del potere temporale del papato con l’esilio di Pio VI Braschi. Canova fu

    La Danzatrice – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    incaricato di scolpire la statua di Pio VI, da collocare inizialmente sotto l’altare della Confessione nella Basilica Vaticana, quindi spostata nelle Grotte Vaticane: in mostra – all’interno del palazzo edificato a fine Settecento proprio per i nipoti di Papa Braschi – è possibile ammirare un modellino per il monumento. Nell’ultima sala della mostra, uno dei marmi più straordinari di Canova: la Danzatrice con le mani sui fianchi, proveniente da San Pietroburgo. Gira sulla sua base, come Canova desiderava, per di più in un ambiente rivestito di specchi. Si ripete il mito di Pigmalione, innamorato della sua statua, Galatea, che si anima: da marmo diventa carne. Il percorso espositivo è arricchito da inedite installazioni multimediali appositamente progettate. Attraverso trenta fotografie di Mimmo Jodice che ritraggono i marmi di Antonio Canova, il pubblico può ammirare le opere dello scultore attraverso lo sguardo di uno dei più grandi maestri della fotografia. Jodice è riuscito a offrirne una rilettura del tutto inedita e sorprendente, creando una serie di immagini che si sono da subito imposte come una delle più emozionanti espressioni della fotografia contemporanea. Le immagini sono una vera e propria mostra nella mostra, offrendo un’occasione unica per accostarsi allo scultore guidati dalla

    Antonio Canova – Particolare – Mimmo Jodice.

    creatività di un grande artista di oggi. Poi, grazie all’apporto di Magister, un innovativo format espositivo che si prefigge l’obiettivo di promuovere la bellezza attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, rivitalizzandolo in chiave contemporanea, si può ammirare una riproduzione in scala reale del gruppo scultoreo di Amore e Psiche giacente di Antonio Canova. A partire da una scansione 3d del gesso preparatorio della scultura oggi esposta al Louvre di Parigi, un robot ha scolpito incessantemente per 270 ore un blocco di marmo bianco di Carrara di 10 tonnellate. L’installazione di grande potenza emotiva, ideata da Magister e realizzata in collaborazione con Robotor, apre una nuova sfida sui paradigmi della riproducibilità delle opere d’arte: la riproduzione è infatti da leggersi come forma di rispetto per il pensiero dell’artista ed esprime l’aspirazione contemporanea a valorizzarne ancora una volta l’estro creativo.
    Ad accompagnare l’installazione, un documentario sulla realizzazione

    Paride – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    dell’opera e un racconto video della fiaba di Amore e Psiche di Apuleio, in un percorso tra spettacolo e approfondimento, un racconto sui testi di Giuliano Pisani, con la voce di Adriano Giannini e la musica originale del violoncellista Giovanni Sollima.
    Ma chi è stato Antonio Canova? Senza dubbio il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo e l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come

    Venere – Antonio Canova – Mimmo Jodice

    oggetti puri ed incontaminati secondo i principi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: Teseo sul Minotauro, Amore e Psiche, Ercole e Lica, Le Tre Grazie; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria.
    Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche sono scoperti e immediati: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di Teseo sul Minotauro. Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papi

    Damosseno – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria – in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide – e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepolcri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di

    Orfeo – Antonio Canova – Mimmo Jodice.

    Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie.

    Roma, 12 gennaio 2020

  2. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

    Villa Giulia, splendido esempio di villa rinascimentale suburbana, fu fatta edificare da Papa Giulio III tra il 1550 e il 1555.

    Villa Giulia

    Come sempre in questi casi la parte residenziale dell’edificio ha dimensioni relativamente modeste e strettamente connessa con il giardino costituito da terrazze collegate da scalinate scenografiche, ninfei e fontane adorne di sculture.
    La villa è il risultato dell’interazione tra tre dei più grandi artisti dell’epoca: Giorgio Vasari, l’architetto Jacopo Barozzi da Vignola e lo scultore e architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati. Anche la decorazione pittorica ad affresco è di notevole pregio, e a essa avevano contribuito pittori diversi tra i quali Taddeo Zuccari.
    L’elemento caratteristico della villa era il ninfeo, in origine ricchissimo di decorazioni, alimentato da una canalizzazione dell’Acquedotto Vergine che corre in profondità e si manifesta nella fontana bassa, e che costituisce il primo “teatro d’acque” di Roma.
    L’edificio fu ampliato una prima volta nel 1912 e poi di nuovo nel 1923.
    Il Museo di Villa Giulia nacque nel 1889 per iniziativa di Felice Barnabei, un archeologo e politico italiano.

    Ninfeo di Villa Giulia

    Il primo nucleo di reperti esposti proveniva da Falerii, l’odierna Civita Castellana, capoluogo dei Falisci, un popolo che si era insediato nel territorio compreso fra i Monti Cimini ed il Tevere, territorio che era stato oggetto già nel 1880 di attente indagini topografiche e di scavi. Alle antichità di Falerii si aggiunsero via via quelle provenienti da altri centri dello stesso territorio (Corchiano, Narce, ecc.), materiali da abitati, santuari e necropoli del Lazio meridionale (Gabii, Alatri, Satricum, più tardi Palestrina), dell’Etruria (Cerveteri e in seguito Veio), dell’Umbria (Todi, Terni).
    Nella prima metà del ‘900 si vennero ad intensificare le attività di scavo nella zona di Veio e Cerveteri. I reperti archeologici qui portati alla luce, confluiscono nel museo di Villa Giulia che accentua così il carattere etrusco dei materiali raccolti ed esposti.
    Il museo diviene così il Museo Nazionale Etrusco e ancora oggi raccoglie reperti relativi ad alcune delle città etrusche più importanti, quali Vulci, Cerveteri e Veio.

    Apollo – Veio

    Gli Etruschi furono un popolo dell’Italia antica di lingua non indoeuropea e di origine incerta affermatisi in un’area geografica indicata con il nome di Etruria, che si estendeva, grosso modo, dalla Toscana all’Umbria fino al fiume Tevere e al Lazio settentrionale. Successivamente le popolazioni etrusche si espansero in Emilia Romagna e in Lombardia, arrivando fino al Veneto, e al sud raggiunsero la Campania.
    La civiltà etrusca influenzò notevolmente la civiltà romana con la quale si fuse al termine del primo secolo avanti Cristo. L’inizio della fusione è convenzionalmente posto con la conquista della città di Veio da parte dei Romani nel 396 avanti Cristo.
    Ancora oggi resta poco conosciuto il processo che ha portato alla formazione della civiltà etrusca così come essa si è venuta organizzando nell’Etruria, processo di formazione che va tenuto distinto dalla questione relativa alla provenienza di questo popolo, altro aspetto relativamente al quale esistono diverse teorie.
    Dagli studi condotti sui reperti giunti fino a noi, si può evincere che gli Etruschi sono probabilmente il risultato dell’interazione di popoli diversi visto che nella loro cultura compaiono elementi greci, sirio – fenici, italici, egizi, mesopotamici, urartei e indoiranici.
    E’ interessante notare che l’influenza degli antichi Grci sugli Etruschi detreminò la comparsa nella cultura di questi ultimi di una fse storico – culturale definita orientalizzante, che corrisponde circa all’VIII secolo avanti Cristo. I contatti avvennero soprattutto attraverso le colonie della Magna Grecia, ovvero con le colonie greche nell’Italia meridionale. Tra i diversi ambiti nei quali si osserva l’influenza greca certamente va annoverata la ceramica. Vi furono infatti csambi di vasellame tra Etruschi e Greci, ma anche scambi di tecniche produttive ed artistiche, con un miglioramento tecnologico nella civiltà etrusca dei forni e dei torni.

    Latona – Veio

    Un altro ambito in cui è chiara l’influenza greca è nella religione. Molte delle divinità etrusche in questo periodo vennero infatti reinterpretate e fatte corrispondere a divinità greche ad esempio Tinia venne associata a Zeus, Uni ad Era, Aita ad Ade.
    Dal litorale e dall’entroterra toscano, dove praticavano l’agricoltura ancge grazie ad opere di bonifica delle zone paludose, gli Etruschi si espansero veso nord nella Pianura Padana.
    Svilupparono sia le tecniche di estrazione che di lavorazione dei metalli, soprattutto il ferro.
    La lavorazione dei metalli fu uno degli elementi che spinse la crescita dei commerci via mare di città quali Cerveteri, Vulci e Tarquinia.
    E’ possibile che fossero di origine etrusca anche i Reti, un popolo che occupava il Trentino alto Adige.
    Se così fosse gli Etruschi oltre a controllare i traffici sul Mar Tirreno controllavano anche quelli che avvenivano verso il Nord Europa.
    In Umbria gli Etruschi fondano la città di Perugia che diviene una delle dodici lucumonie etrusche.
    I primi villaggi etruschi erano costituiti da capanne con tetto molto spiovente in paglia o argilla. Le città si distinguevano dagli insediamenti italici perché non erano disposte a caso ma seguivano una logica economica o strategica ben precisa. Ad esempio alcune città erano poste in cima ad alture così da poter controllare ampie zone sottostanti terrestri o ampi bracci di mare, oppure sorgevano in territori fertili ed estreamente adatti all’agricoltura, come nel caso di Veio e Tarquinia.
    La città sorgeva intorno ad una coppia di assi viari orientati nord – sud (cardo) ed est – ovest (dcumano), un assetto urbanistico che risultò rivoluzionario rispetto a quello adottato dai greci e che successivamente divenne modello per molte altre civiltà tra cui quella romana.

    Ercole – Veio

    Le città erano spesso protette da mura ciclopiche in argilla o tufo o pietra calcarea in cui si aprivano porte.
    Moltissime delle informazioni sulle abitazioni e sulla vita quotidiana degli Etruschi sono state ricavate dallo studio delle necropoli, le “città dei morti” sempre poste al di fuori della cinta muraria. Le necropoli sono sempre composte da sepolture ipogee, ovvero da ambienti sotterranei sovrastati da un tumulo, che riproducevano la disposizione delle abitazioni con arredi, vasi, stoviglie, armi, gioielli, ecc…. Ognuna di queste tombe si articolava in diverse camere sepolcrali di dimensioni proporzionali alla ricchezza e alla notorietà del defunto o della famiglia del defunto. Gli affreschi alle pareti delle tombe riproducevano scene di vita quotidiana.
    Gli Etruschi credevano nell’esistenza di una vita dopo la morte che era una prosecuzione della vita terrena.
    Altre tombe erano ricavate all’interno di cavità naturali preesistenti. Le tombe a edicola erano costruite completamente a livello della strada. Erano a camera unica ed avevano la forma di un tempio in miniatura, ma in pratica avevano una forma molto simile a quella delle abitazioni con tetto a doppio spiovente.
    Nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia sono esposti i reperti tra i più famosi provenienti dalle città etrusche quali il Sarcofago degli Sposi proveniente da Cerveteri e risalente al VI secolo avanti Cristo. Il Sarcofago degli Sposi, capolavoro dell’arte etrusca in terracotta, fu trovato nel 1881 in una tomba della Banditaccia, allora di proprietà dei Principi Ruspoli, dai quali Felice Barnabei, il fondatore del Museo, lo acquistò rotto in più di 400 frammenti. Formato da una cassa a forma di letto da convito (kline) e da un coperchio con la rappresentazione di una coppia coniugale semidistesa a banchetto, alla moda orientale, il sarcofago è in realtà un’urna cineraria destinata ad accogliere le ceneri di due defunti.

    Sarcofago degli Sposi – Cerveteri

    L’uomo con il busto nudo e il resto del corpo coperto dal mantello cinge con gesto amoroso le spalle della donna, abbigliata con cappello e calzature con la punta rialzata; entrambi nelle mani tenevano vasi o altri oggetti da mensa, non conservati. Nella rappresentazione della coppia a banchetto, tema tanto frequente nei monumenti funerari, è colto un momento importante della vita aristocratica etrusca, che esaltava il rango e l’opulenza e rifletteva antichi ideali e forme rituali derivate dal mondo greco omerico. L’opera, modellata in un unico momento, ma tagliata verticalmente in due metà per evitare danni durante la cottura, in origine doveva essere ravvivata da forti colori di cui resta traccia sulle gambe del letto conviviale, colori che in parte si conservano nel sarcofago gemello, anch’esso da Cerveteri, al Museo del Louvre di Parigi dal 1863. L’attenzione dello scultore è concentrata sulle teste dalla nuca molto arrotondata, sui volti dall’ovale sfinato con gli occhi allungati, mentre la struttura dei corpi è nascosta da un panneggio dalle linee fluide, di grande raffinatezza anche nei dettagli. Datato tra il 530 e il 520 a.C., il sarcofago mostra caratteri stilistici propri di quella corrente artistica cosiddetta ionica che, avviata da artigiani provenienti dalle città greche dell’Asia minore, domina in Etruria nella seconda metà del VI secolo.
    Da Veio, in terracotta policroma risalente anch’essa al VI secolo avanti Cristo provengono la statua di Apollo e quella di ercole, affrontati nella contesa per la cerva cerinite dalle corna d’oro sacra ad Artemide/Diana, che costituisce una delle dodici fatiche di Ercole.

    Sette Contro Tebe (frammento) – Pyrgi

    Le statue facevano parte dell’apparato decorativo del tempio di Apollo. Di questo complesso decorativo facevano parte anche una statua di Hermes/Mercurio di cui giunge una splendida testa, e Latona con il piccolo Apollo in braccio, rappresentata forse nell’atto di colpire il serpente pitone per allontanarlo da Delfi.
    Da Pyrgi, l’antico porto di Cerveteri, proviene l’altorilievo in terracotta con la raffigurazione dei mito dei Sette contro Tebe, risalente al V secolo avanti Cristo e facente parte della decorazione del così detto tempio A dedicato a Leucotea – Ilizia, ovvero l’etrusca Uni.
    Dal così detto tempio B di Pyrgi provengono anche le lamine d’oro risalenti alla fine del VI secolo avanti Cristo, che costituiscono la più antica fonte storica dell’Italia preromana. Due delle lamine sono in lingua etrusca, mentre la terza è in fenicio. Il testo etrusco più lungo e quello fenicio hanno lo stesso contenuto pur non essendo l’uno la traduzione letterale dell’altro. Questa coppia di lamibe è un documento importante per la comprensione dell’etrusco.

    Lamine d’oro – Pyrgi

    Le due lamine riportano la dedica di un “luogo sacro” alla dea fenicia Astarte, assimilata alla dea etrusca Uno, da parte di Thefarie Velianas, che il testo fenicio designa re di Caere. Segue nell’iscrizione fenicia la motivazione della dedica: in ringraziamento dell’aiuto ricevuto dal donatore tre anni prima, in occasione della sua ascesa al potere. Nell’iscrizione etrusca più breve è ricordato lo stesso personaggio per alcune azioni rituali nel medesimo luogo sacro.

    Roma, 9 febbraio 2019

  3. Giacomo Balla al Museo Bilotti di Villa Borghese

    Il Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, situato nel cuore del grande parco romano, è il luogo ideale per accogliere questa mostra

    Villa Borghese dal balcone – Giacomo Balla.

    antologica di Giacomo Balla, incentrata esclusivamente sul tema della Villa Borghese stessa, tema più volte affrontato dal pittore nel suo primo periodo di permanenza a Roma. La mostra permette, quindi, di conoscere, indagare e studiare il pittore forse meno noto, quello che dipinge prima di FuturBalla, ovvero del Balla futurista.
    Giacomo Balla si trasferisce a Roma con la madre Lucia Giannotti nel 1895, allontanandosi dalla sua città natale, Torino. Per il primo anno è ospite dello zio paterno Gaspare Marchionne Balla, residente al Quirinale in quanto Guardiacaccia di Sua Maestà il Re. Di qui va a vivere in via Piemonte 119, entrando in contatto con Alessandro Marcucci, Duilio Cambellotti e Serafino Macchiati. Conosce così Elisa Marcucci, sua futura moglie, che sposa in Campidoglio nel 1904.
    I coniugi Balla andranno a vivere nel quartiere Parioli, in un convento situato tra via Parioli, oggi via Paisiello, e via Nicolò Porpora. All’interno del fabbricato, di proprietà dei Sebastiani, grazie all’interessamento del sindaco Nathan, la famiglia Balla dispone di un appartamento con un lungo balcone che dà direttamente sugli spazi verdi di Villa Borghese, più volte ritratto in dipinti anche successivi al periodo futurista.

    Maggio – Giacomo Balla.

    Sarà proprio dal balcone di questo appartamento che nasceranno una parte cospicua delle opere presentate in mostra, opere che sono indagine sulla natura e sul rapporto natura – città, un tema caro ai pittori italiani degli inizi del Novecento, testimoni della trasformazione che stava subendo il paesaggio urbano. Si può affermare, quindi, che il tema della natura ai confini della città, è per Balla ciò che è per Paul Cézanne la Montagne Sainte-Victoire: materia da indagare, da provare e riprovare, da scarnire fino all’astrazione.
    Ma a Roma in questo momento la natura è ancora fortemente presente nell’orizzonte e nella prospettiva della città, e Balla ne fa oggetto della sua indagine, insieme alla luce. Indagine quest’ultima, a tratti quasi ossessiva. Una luce, analizzata e studiata in ogni suo aspetto a testimoniare l’interesse di Balla per la fotografia, interesse che è un interesse d’infanzia mediato dal padre fotografo dilettante.

    Autoritratto notturno – Giacomo Balla.

    E’ questo interesse a guidarlo e a fargli incontrare prima il mondo del Divisionismo, ancora a Torino incontrerà Pellizza da Volpedo, e a utilizzare in pittura delle luci dal vivo che sono luci fotografiche e che nella mostra al Museo Billotti sono esemplificate, tra le altre, dalle opere a pastello, una delle tecniche utilizzate all’inizio dal pittore, in cui la luce viene rappresentata da tratti istantanei di colore apparentemente fuori

    Alberi e siepe a Villa Borghese – Giacomo Balla.

    contesto, ma che sono utili a Balla per mostrare gli effetti della luce e del colore, nell’interazione naturale di un campo aperto. E lì dove viene usata una tecnica più “convenzionale” come la tela e l’olio, Balla non può esimersi dal rendere l’immediatezza della luce colpendo la tela con il retro del pennello, asportando e graffiando la tela. I graffi sono evidenti e chiari in primo piano, ad esempio, nell’opera Villa Borghese dal balcone del 1907.
    Non è un caso perciò che nel dipanarsi della mostra insieme all’opera di Balla vengano presentati gli scatti del fotografo Mario Ceppi realizzati negli stessi luoghi dei dipinti in mostra. I sei scatti esposti hanno “lo stesso taglio fotografico delle opere realizzate da Giacomo Balla”, spiega la curatrice della mostra, Elena Gigli. “Siamo andati in giro per Villa Borghese per ritrovare le stesse costruzioni, gli stessi momenti, gli stessi alberi che l’artista ha ritratto”. La ricerca è una ricerca importante perché anche la Villa nel tempo si è trasformata, ma ciò nonostante, è stato possibile riconoscere, all’interno del Museo Pietro Canonica, un albero ritratto nei pastelli di Balla esposti in mostra.

    L’ortolano – Giacomo Balla.

    Un altro aspetto che emerge dalla mostra è il rinnovato interesse degli artisti del primo Novecento italiano, e anche di Balla, per il trittico, una modalità compositiva molto in uso in periodo Medievale.
    Balla però non ritrae solo ciò che vede dal balcone di casa. La sua indagine sulla natura e la luce lo porta a scendere e passeggiare per i viali della Villa andando a scovare scorci particolari, reperti archeologici e anche pietre che vengono trattate come se fossero i personaggi principali di una storia. Nel dipinto che mostra una delle fontane di Villa Borghese l’acqua che zampilla è resa asportando il colore con energia utilizzando proprio il manico del pennello.
    A Roma, di fatto, Balla si muove in un ambito culturale che fa riferimento al socialismo umanitario e al positivismo scientifico ed è anche per questo motivo che l’interesse dell’artista non è solo per il paesaggio urbano, ma anche per la condizione umana, indagata a fondo nel ciclo Dei viventi tra il 1902 e il 1905, di cui anche in mostra troviamo alcuni esempi che includono non solo soggetti del mondo comune, ma anche gli affetti familiari, porti al visitatore con un realismo poetico, e i ritratti

    Ritratto di donna e due paesaggi – Giacomo Balla.

    commissionati dal mondo della borghesia romana, a cominciare dal sindaco Nathan. Anche in questi ritratti emerge la ricercatezza delle inquadrature e colpisce la posa dei soggetti che è tipica delle fotografie, ad esempio con la scelta di tagli ravvicinati, o di questa peculiare modalità di utilizzare la luce come nel caso dell’Autoritratto notturno del 1919, in cui la luce colpisce il volto del pittore quasi abbagliandolo e mettendo in risalto gli occhi chiari, che diventano magnetici per chi osserva il dipinto.

    Roma, 25 gennaio 2019

  4. La realtà irrompe nell’arte. Galleria Nazionale D’Arte Moderna. Una lettura.

    Certi musei sono come le città, offrono la possibilità di essere letti su livelli diversi, affrontando molteplici temi.

    Castel dell'Ovo a Napoli - Anton Sminck Plitoo - Galleria Nazionale d'Arte Moderna

    Castel dell’Ovo a Napoli – Anton Sminck Plitoo – Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    La Galleria Nazionale d’Arte Moderna è uno di questi, anche grazie all’ampio arco di tempo coperto che va all’incirca dalla seconda metà dell’Ottocento al presente, è un museo che consente letture che seguono temi e piani diversi, anche non esclusivamente artistici.
    La GNAM (acronimo di Galleria Nazionale d’Arte Moderna, con il quale da diversi anni ci di riferisce a questo museo) nasce dopo l’Unità d’Italia quasi come affermazione dell’orgoglio nazionale, se non proprio come bisogno identitario, del giovanissimo stato italiano, orgoglio nazionale e bisogno identitario che, in quel preciso momento storico, passano anche attraverso l’arte e la cultura.
    Fu così che Guido Baccelli, Ministro della Pubblica Istruzione, nel 1883 decretò l’istituzione della GNAM, il cui obiettivo iniziale era raccogliere le opere di artisti italiani allora viventi o da poco scomparsi.

    La Pazza - Giacomo Balla - Galleria Nazionale d'Arte Moderna

    La Pazza – Giacomo Balla – Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    Il nuovo museo trovò una prima sede all’interno del Palazzo delle Esposizioni, anch’esso costruito proprio nel 1883 da Pio Piacentini e realizzato per accogliere mostre d’arte come la Quadriennale di Roma. La collezione però crebbe rapidamente, tanto che lo spazio a disposizione nel Palazzo delle Esposizioni divenne ben presto insufficiente, rendendo necessaria la realizzazione di una sede apposita. Il nuovo edificio, progettato e costruito da Cesare Bazzani, fu inaugurato nel 1911 in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia nella zona di Valle Giulia. Dal 1915 in questa sede, la stessa che ancora oggi ospita la GNAM, raccoglierà le collezioni d’arte nazionale organizzate per scuole regionali.
    Il grande sviluppo in senso moderno della Galleria si ha però nel 1942, con la direzione di Palma Bucarelli e l’acquisizione del ruolo di Soprintendenza Speciale.

    Grande Rosso P.N. 18 - Alberto Burri - Galleria Nazionale d'Arte Moderna

    Grande Rosso P.N. 18 – Alberto Burri – Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    La Bucarelli diviene direttore in un momento molto difficile: tra il 1942 e il 1945 il suo impegno consiste soprattutto nel mettere in salvo le opere dalle distruzioni e dai saccheggi della guerra, e nel riportarle a Roma al termine del conflitto. Subito dopo la Bucarelli avviò il suo progetto di ripensare la Galleria.
    Direttore forse poco amato, Palma Bucarelli aveva un’idea molto precisa di cosa avrebbe dovuto essere una Galleria di arte moderna: non un mero contenitore di opere, ma un luogo che deve respirare l’aria che lo circonda, coniugandosi e relazionandosi con il mondo, ma soprattutto deve interagire con la gente, assumendo nel tempo, sempre più, un ruolo didattico.
    Via quindi l’organizzazione, impostata sin dalla fondazione della GNAM, delle opere in funzione dell’appartenenza regionale dei singoli artisti, sostituita da una suddivisione basata sulle correnti artistiche e sui temi affrontati, organizzazione che ancora oggi, in buona sostanza, la GNAM mantiene e grazie alla quale può accadere che uno stesso artista, per il semplice mutare della sua arte, dei suoi interessi, delle sue convinzioni e del suo sentire, sia presente in diverse sale e che in questa maniera se ne possa apprezzare l’evoluzione nel tempo. Due esempi tra tutti possono essere l’ampia collezione di opere di Medardo Rosso e di Balla.
    Questa organizzazione consente ancora oggi che artisti italiani di formazione simile ma provenienti da realtà regionali e sociali diverse possano trovarsi a dialogare nella medesima sala e che quindi Vincenzo Caprile, un impressionista napoletano della Scuola di Resina, si trovi in confronto diretto con il torinese scapigliato Medardo Rosso.

    Il Vecchio (Sciur Faust) - Medardo Rosso - Galleria Nazionale d'Arte Moderna

    Il Vecchio (Sciur Faust) – Medardo Rosso – Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    L’apertura fatta dalla Bucarelli all’acquisto di opere di artisti non solo italiani, permette poi di avere sale in cui le opere degli artisti italiani possono dialogare a breve distanza con i loro contemporanei stranieri, lasciando al visitatore la possibilità di effettuare confronti e analisi, che altrimenti non sarebbero possibili. Così in una sala è possibile che Giacomo Balla stia insieme a Vincent Van Gogh, che Gaetano Previati possa dialogare con Gustav Klimt.
    La GNAM offre poi un’occasione quasi unica nel panorama dei musei italiani: quella di seguire con precisione il lento ma inesorabile ingresso della vita quotidiana e soprattutto della società e della gente comune nell’arte.
    All’incirca a partire dalla metà dell’Ottocento era infatti diventato impossibile per gli artisti, per motivi diversi che appariranno evidenti nel corso della visita, ignorare la società e i cambiamenti che stanno avvenendo e nei quali sono immersi. Anzi, spesso sono gli artisti stessi ad essere protagonisti di tali cambiamenti (si pensi a Induno, a Palizzi e a tutti quegli artisti che avevano direttamente partecipato alla Repubblica Romana del 1849 e che non potevano non riversare nella loro arte quel che avevano vissuto) o ne sono comunque investiti con una forza troppo violenta e drammatica perché possano ignorarli: è il caso, per esempio,

    Le Frecce della Vita - Giacomo Balla - Galleria Nazionale d'Arte Moderna

    Le Frecce della Vita – Giacomo Balla – Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    del Balla pre-futurista che si interessa ai malati di mente e alla maniera per curarli; di Medardo Rosso che si occuperà quasi esclusivamente del proletariato e sottoproletariato milanese; di Angelo Tommasi che affronterà, in una grande tela del 1896, uno dei temi più drammatici dell’Italia da poco unita: quello dell’emigrazione. L’irruzione nell’arte della gente, della questione sociale, della realtà in tutte le sue declinazioni sarà il tema di questa visita alla GNAM che si concentrerà sul passaggio storico-artistico che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino a poco oltre la fine della Seconda Guerra Mondiale, con qualche piccola incursione negli anni venti dell’ottocento.