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  1. Basilica di Santa Francesca Romana o di Santa Maria Nova

    La basilica vanta una doppia dedicazione: a Santa Francesca Romana, perché qui è sepolta, dal 1440, la grande santa romana; e a Santa Maria Nova, eretta nella seconda metà del IX secolo sulle rovine di Santa Maria Antiqua, una chiesa del VI secolo crollata in seguito ad un terremoto:

    Santa Francesca Romana – visione dal Foro Romano.

    preziosissimo gioiello di architettura e pittura cristiana, alle pendici del Palatino, da qualche anno riaperta al pubblico dopo decenni di restauri.
    Santa Francesca Romana/Santa Maria Nova sorge dove nell’antichità si alzava il colossale Tempio di Venere e Roma, fatto costruire dall’imperatore Adriano nel 135.
    Il tempio si trovava nel punto in cui si trovava l’atrio della Domus Aurea con il famoso Colosso, la gigantesca statua di Nerone che secondo alcuni studiosi avrebbe dato il nome al Colosseo e che fu fatta spostare proprio da Adriano per erigere il tempio. Dell’antico tempio si possono ancora vedere esternamente le colonne intorno all’area della chiesa.
    Per edificare, dunque, Santa Maria Nova venne incorporato un precedente Oratorio dei SS. Pietro e Paolo che, dal secolo precedente, si era inserito proprio dentro il porticato del Tempio di Venere e Roma in corrispondenza con la cella della Dea Roma. L’oratorio sarebbe sorto sul posto della singolare disfida a volare lanciata dallo eresiarca Simon Mago contro

    Santa Francesca Romana – Interno.

    l’apostolo Pietro. La preghiera di questi avrebbe ottenuto di far precipitare a terra Simone che si era librato in aria per arti magiche. La chiesa venne ricostruita nel 1216 da Onorio II e nel 1615 ricevette la bianca facciata di travertino con un timpano ornato di statue, opera di Carlo Lambardi. Il campanile romanico, del XII secolo è alto 42 metri, è ornato a ciotole di maiolica e ha negli ultimi tre piani a doppie bifore, in alto c’è una piccola edicola.
    Dal Seicento — in seguito alla avvenuta traslazione dal monastero di Tor de’ Specchi del corpo di santa Francesca Romana, una Bussi, sposa di un Ponziani, che in quella chiesa aveva fondato le sue “oblate” — la chiesa ha cambiato il nome. E poiché la santa è stata proclamata patrona degli automobilisti, nacque, qualche decennio fa, la consuetudine — oggi dimenticata — di benedire, ogni anno, il 9 marzo, festa di Francesca Romana, le automobili radunate sul piazzale del Colosseo.
    Dopo la liberazione della zona del Foro da tutte le costruzioni e dalle sovrastrutture che l’avevano invasa nel corso dei secoli, questa chiesa, insieme con la meravigliosa Santa Maria Antiqua, è ormai l’unica

    Santa Francesca Romana – Mosaico dell’abside.

    sopravvivenza di costruzione non di epoca classica e la più visibile testimonianza dei secoli cristiani al cospetto dell’antico Foro.
    Tuttavia la nobiltà delle sue linee, lo snello e forte campanile dei tempi più ferrigni e l’ariosa facciata dell’epoca barocca la inseriscono nell’ambiente secondo una superiore armonia. La facciata luminosa si erge su un profondo porticato, creato alla maniera di un protiro davanti al corpo della vecchia chiesa. La parte centrale di essa si stacca dalle due ali, che sono segnate dalla voluta delle statue, ed appare come un corpo leggermente avanzato. Esso è costruito da due gigantesche coppie di lesene che si alzano fino al timpano coronato da tre statue. Fra le lesene è inserita con un forte effetto di chiaroscuro una zona costituita da un alto arcone e da una loggia sovrapposta.
    L’interno, dalla semplice pianta, con cappelle laterali che fiancheggiano una aula piena di decorazioni e di colore, si apre come un luogo estremamente accogliente per chi proviene dalla distesa delle antiche rovine del Foro.
    La piacevole sensazione di insieme è data dal seicentesco soffitto a

    Madonna Odigitria – Santa Francesca Romana.

    cassettoni policromi cui corrisponde, al centro del pavimento, un ampio riquadro cosmatesco, residuo della schola cantorum, dalla confessione a marmi policromi, realizzata da Bernini fra il 1638 e il 1649, e dallo sfolgorante brano di mosaico rimasto nel catino absidale. Questo raffigura la “Vergine in trono con il Bambino”, affiancata da Santi e risale al 1161, dimostrando una scioltezza di movimento che sta per liberarsi dalla rigidità bizantina. Il mosaico è quanto avanza dalle abbondanti decorazioni musive che rivestiva l’intera abside e l’arcone trionfale e che è sostituita attualmente da affreschi seicenteschi nell’abside e ottocenteschi, di Cesare Maccari, nell’arco.
    Sulla destra del presbiterio molto elevato — al quale si accede con due rampe barocche — è sito il sepolcro eretto dal Popolo Romano nel 1584 a papa Gregorio XI che riportò da Avignone a Rona la sede del papato. Qui vicino si mostrano due pietre di basalto con le impronte che vi avrebbe lasciato san Pietro inginocchiato per chiedere la punizione del Mago, fonte di scandalo.
    Nel tabernacolo dell’altar maggiore è collocata un’immagine della Madonna del XII secolo, ritrovata sotto le ridipinture ottocentesche di una tavola giunta dall’Oriente. Ma la stessa immagine è stata a sua volta distaccata nel 1950 dal geniale restauratore Pico Cellini, che riconobbe un’altra immagine sottostante, di epoca ancora più antica: nientemeno del secolo V.

    Santa Francesca Romana.

    Quest’immagine rappresenta il vero tesoro, inestimabile, della Basilica: si tratta della icona che rappresenta la Vergine Odigitria, cioè “colei che indica la strada”. E la strada, la via, la verità e la vita è quel Gesù Bambino che tiene in braccio.
    Così racconta Pico Cellini, scomparso nel 2005, il momento del riconoscimento dell’antichissima icona. Di questa “avventura”, come la definisce Cellini, il decano dei restauratori italiani scomparso nel 2005, parla in un’intervista rilasciata nel 1990. Nell’anno santo del 1950 gli viene affidato l’incarico di restaurare un’antica icona della Vergine Maria presente nella chiesa di Santa Francesca Romana. Un’immagine «molto rimaneggiata e ridipinta lungo i secoli», ricorda. Che presentava una particolarità: «I volti della Madonna e del Bambino tendevano a staccarsi dalla tavola».
    «Quale studioso di immagini mariane e profondamente devoto della Madonna», ricorda il restauratore, egli fu «ben felice» dell’incarico, come anche del fatto che gli fu data licenza di portare l’immagine sacra a casa.

    Santa Francesca Romana.

    «Qui, prima di incollare l’immagine al supporto, volli verificare se era vero, come sospettavo, che la causa del distacco fosse da ricercare in uno strato sottostante di pittura diverso per natura e colore. Con infinita cura riuscii a staccare i bordi dei due volti, che stranamente apparivano isolati rispetto al resto del dipinto, e una volta sollevato quella specie di coperchio, per poco non mi prese un accidente: sotto la testa della Vergine ne emerse infatti una seconda, enorme, con due grandi occhi dallo sguardo ipnotico. Era il volto, mirabilmente intatto, di un’immagine molto più antica di quella attribuita all’inizio del XII secolo, che traspariva sotto le grossolane ridipinture ottocentesche: per la tecnica ad encausto su tela di lino e altre caratteristiche che non sto qui ad elencare, fui in grado di datarla addirittura al primo quarto del V secolo. Essa rispecchiava una tecnica raffinatissima e una committenza prestigiosa, quella della stessa corte imperiale di Bisanzio: era una immagine carica di arte, di fede e di storia giunta in Occidente attraverso chissà quali tumultuose vicende. Spesso mi son chiesto come mai questa Madonna produce una tale emozione, specie in chi la contempli per la prima volta. La spiegazione, forse, è in quei grandi occhi dalla pupilla dipinta in nero, colore che – secondo i canoni dell’arte ellenistica – indica il limite

    Santa Francesca Romana.

    della conoscenza. Quello di Maria non è uno sguardo rivolto all’esterno, ma è tutto interiore: attinge l’abisso dell’inconoscibile, in cui dimora Dio, abisso che lei sola vede». Dopo il ritrovamento dell’icona, il grande restauratore si recò ogni domenica nella basilica di Santa Francesca Romana per assistere alla messa, per poi raccogliersi in preghiera davanti all’immagine. E “presentare” ai fedeli convenuti quel volto della Madonna rimasto celato a tante generazioni, i cui grandi occhi avevano svelato d’incanto gli ultimi segni della bellezza antica e i tratti somatici della Vergine Maria descritti da san Luca nel suo vangelo, autore, secondo la tradizione, di molti suoi ritratti. A confermare la datazione e la provenienza dell’immagine entrò in gioco un altro mostro sacro: Margherita Guarducci, epigrafista greca di fama mondiale e accademica dei Lincei, che da lì a poco avrebbe rintracciato le reliquie di san Pietro nella necropoli vaticana. In breve, la studiosa osservò come l’icona apparsa alla luce presentasse caratteristiche che si ritrovavano stranamente in un’altra famosa immagine, ritenuta perduta: quella della Madona Odigitria di Costantinopoli, creata tra il 438 e il 439 quale tipo ufficiale di Maria Madre di Dio, una definizione che era emersa e consegnata alla Chiesa nel Concilio

    Santa Francesca Romana.

    di Efeso del 431. Un’immagine, quella di Costantinopoli, che la tradizione attribuiva all’iconografia propria dell’evangelista Luca, e fatta realizzare in Palestina – ad encausto e su disco ligneo – da Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II. Notevole anche il fatto che le dimensioni dell’icona costantinopolitana corrispondessero a quelle romane.
    Ma c’era di più: pare che gli imperatori dell’Occidente avessero portato a Roma, sempre nel 439, una copia su tela della Odigìtria, eseguita sull’impronta rovesciata – ottenuta per calco speculare – dell’originale. Da questo calco deriverebbe dunque l’immagine romana, che infatti vede invertita la posizione del Bambino Gesù: sul braccio destro di Maria invece che sul sinistro, come normalmente rappresentato. Proseguendo le sue ricerche, la Guarducci si imbatté in una splendida ed enorme icona mariana esistente a Montevergine, celebre santuario dell’avellinese. L’opera, eseguita tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, raffigura la Madonna in trono col Bambino e presenta una particolarità: la testa di Maria è leggermente sporgente dal resto della tavola e inclinata verso chi osserva dal basso.

    La Basilica di Massenzio e Santa Francesca Romana – Canaletto – 1753/1754.

    Esami condotti tra il ’60 e il ’61 accertarono che essa è dipinta su un disco di legno di tipo diverso dal resto della tavola, e che dal dipinto medievale traspaiono tracce di una pittura più antica. E in effetti, una tradizione risalente al ’500 vuole che questa sia l’autentica testa della famosa Odigìtria perduta, in realtà trafugata da Baldovino II, ultimo imperatore latino d’Oriente, allorché fuggì da Costantinopoli nel 1261. Il volumetto La più antica icona di Maria della Guarducci documenta la singolare scoperta: «A Montevergine rimane la testa autentica della Odigìtria, se pure sotto il velo della pittura medievale; a Roma splende la medesima testa, nella copia fedele che subito ne fece, “in controparte”, un grande artista di Costantinopoli. Fra Oriente e Occidente si pone ora, quale prodigioso vincolo di pace, la più antica icona di Maria, che dell’Oriente e dell’Occidente ha ricevuto, per tanti secoli, la fervida preghiera». L’antichissima immagine dell’Odigitria è esposta nella sagrestia della basilica di Santa Francesca Romana. Non sorprende che fu proprio ai piedi di tale icona che, il 15 agosto 1425, santa Francesca Romana e le sue prime compagne fecero la loro oblazione al Signore. Alla morte della santa, il suo corpo fu deposto nella cripta della chiesa, che da quel momento prese anche il nome della veneratissima Francesca, come è più nota oggi, compatrona di Roma insieme a Pietro, Paolo e Filippo Neri.

    Roma, 20 novembre 2019

  2. Gianicolo e Montorio, due nomi per un unico colle. Storia e arte di un luogo incantato.

    “Gianicolo” è nome legato alla tradizione più antica della fondazione della città di Roma. Qui, secondo fonti, tra cui Virgilio, vi si

    Panorama di Roma dal Gianicolo. Sullo sfondo a sinistra si scorge il sistema dei monti Sabini – Lucretili, al centro i monti Tiburtini – Prenestini e sulla destra i Colli Albani.

    praticava il culto di Giano, antico re del Lazio. Costui qui avrebbe fondato la sua città, ove avrebbe accolto e nascosto Saturno cacciato dal cielo, prima che questi si costruisse una rocca al Campidoglio.
    Di fatto, di tale prima fondazione non vi è alcuna traccia, così come non vi è attestata nessuna presenza di un tempio dedicato a Giano, se si eccettuano i resti di un piccolo sacello dedicato a suo figlio Fons, presso cui la tradizione poneva anche il sepolcro di Numa.
    Esiste poi la possibilità, attestata da almeno tre epigrafi, che sul colle ci fossero, prima della fondazione di Roma, septem pagi, cioè sette villaggi, sopraffatti poi dagli Etruschi. Gli abitanti dei sette insediamenti avrebbero poi attraversato il Tevere, raggiungendo la riva sinistra, contribuendo così alla fondazione della città sui colli. Secondo Plutarco questi septem pagi erano sette villaggi che Romolo avrebbe conquistato nella guerra contro i Veienti, e con essi anche l’accesso e il controllo delle Saline presso la foce del Tevere.

    San Pietro in Montorio – Facciata.

    Secondo il grammatico romano Sesto Pompeo Festo, il nome “Gianicolo” deriverebbe invece da ianua, cioè porta, per via del suo ruolo di raccordo e passaggio per l’Etruria. È noto che il colle e la pianura di Trastevere appartennero per qualche tempo agli Etruschi, e quando il Gianicolo fu conquistato dalle tribù latine, Anco Marcio — secondo la tradizione riportata da Livio — vi costruì una rocca dalla quale, issando un drappo rosso, veniva segnalato tempestivamente alla città l’arrivo dei nemici. In questa maniera si aveva il tempo di opporre una prima resistenza, a cui seguiva l’efficace difesa delle tribù sull’altra riva del Tevere.
    Il presidio militare veniva rafforzato quando nel Campo Marzio si tenevano i comizi centuriati ai quali partecipavano tutti gli uomini atti alle armi, e la città rimaneva, per questo motivo, senza difesa.
    Quest’accorgimento non impedì tuttavia i ripetuti attacchi da parte degli Etruschi alla città, il più noto dei quali è quello che vide Orazio Coclite combattere gli Etruschi di Chiusi guidati dal loro lucumone Porsenna sul ponte Sublicio, mentre questo veniva smontato alle sue spalle.
    Ma anche quando il pericolo etrusco cessò, dopo la presa di Veio, nel 396 avanti Cristo, il Gianicolo mantenne ugualmente la sua funzione strategica.
    Durante le guerre civili, che segnarono la fine della Repubblica, i partiti se ne contesero il possesso e di lì Mario e Lucio Cornelio Cinna intrapresero l’assalto a Roma, che si concluse con le stragi dei sillani.

    Primo itinerario di Einsiedeln.

    Quando divenne concreta la minaccia dei barbari, Aureliano, il costruttore delle imponenti mura, incluse anche il Gianicolo nel sistema difensivo della città. Nel caso del Gianicolo, il sistema difensivo iniziava dal ponte di Agrippa, attuale ponte Sisto, correva poi parallelamente all’attuale via Garibaldi, saliva fino all’attuale porta San Pancrazio, una volta detta Aurelia, e quindi scendeva congiungendosi alla Porta Portese antica, situata ad un centinaio di metri più avanti da quella attuale.
    Questo sistema difensivo, che aveva il compito di proteggere anche Trastevere, rimase inalterato fino al 1642, quando Urbano VIII volle fortificare ulteriormente queste strutture difensive a seguito dell’esito negativo della guerra di Parma contro i Farnese. In questa occasione le mura vaticane furono collegate con queste del Gianicolo e quindi alla Porta Portese, che nel frattempo venne arretrata e spostata nella posizione attuale.
    Si hanno testimonianze molto chiare del fatto che il Gianicolo sia stato sempre scarsamente abitato e questa condizione viene messa in relazione con il fatto che sul colle scarseggiava l’acqua potabile.

    Tempietto del Bramante

    Augusto, nel 2 avanti Cristo infatti costruì un acquedotto che trasportava l’acqua Alsienita, ovvero quella del lago di Martignano, citata erroneamente anche nell’iscrizione del Fontanone. Si trattava di acqua non potabile, utilizzata solo per irrigare gli orti, in particolare quello di Cesare.
    Nel 109 dopo Cristo, Traiano fece costruire un nuovo acquedotto che proveniva da Bracciano: aveva una mostra dell’acqua all’altezza dell’attuale Villa Sciarra e faceva arrivare in città, in particolare a Trastevere, acqua potabile. Questa stessa acqua alimentava i mulini e diverse attività artigiane che, a partire dal governo di Traiano, caratterizzarono l’area di Trastevere.
    Quando i barbari di Vitige e Belisario tagliarono gli acquedotti, anche quello di Traiano venne interrotto e l’acqua non alimentò più né Trastevere, né i mulini. Nel Medioevo la vita della città si addensò lungo il corso del fiume e anche i mulini si trasferirono sul Tevere, caratterizzando il paesaggio romano fino alla costruzione dei muraglioni, quando vennero tutti smantellati. I mulini rimasero quindi in uso fino alle fine dell’Ottocento.
    Sebbene non sia mai stato identificato il tempio dedicato a Giano, altri luoghi sacri erano presenti sul colle, ad esempio il bosco della Furrina, in cui Caio Gracco si fece uccidere dal suo servo, e sul quale, probabilmente, verrà edificato il Tempio Isiaco che oggi si può vedere nell’area di Villa Sciarra.

    Cristo alla colonna – Sebastiano del Piombo – San Pietro in Montorio.

    Nel Medioevo si afferma un’altra indicazione per il Gianicolo: esso fu denominato mons aureus dal colore degli strati affioranti di sabbia dorata. È possibile che questa caratteristica sia ricordata anche nell’itinerario di Einsidieln, un testo risalente all’VIII secolo dopo Cristo ad uso e consumo dei pellegrini che dovevano muoversi all’interno della città di Roma. L’estensore attraversa il Gianicolo per raggiungere San Cosimato e San Giovanni della Malva, e indica il colle con il nome di mica aurea.
    Il toponimo Montorio, fa quindi riferimento all’origine geologica del monte: può sorprendere infatti sapere che circa 2 milioni di anni fa qui lo spazio era occupato dal mare. Sulle argille azzurre depositate dalla sedimentazione marina si sono poi andate ad accumulare arenarie e sabbie di duna, che testimoniano il progressivo ritiro del mare. La natura del luogo lentamente cambia diventando quella di una formazione prima costiera e quindi continentale. Ancora oggi è possibile notare gli affioramenti delle sabbie originarie ad esempio sotto le mura proprio in prossimità della chiesa di San Piero in Montorio, all’interno dell’Orto Botanico o dentro Villa Lante.

    Decorazioni barocche della bottega del Bernini nel tempietto del Bramante.

    Questa iniziale formazione geologica verrà poi quasi completamente coperta dalle lave delle eruzioni del vulcano Sabatino, ovvero dei monti Volsini e Cimini, e dei Colli Albani, che si trasformeranno nel tufo, uno dei principali materiali da costruzione utilizzato a Roma.
    Sulle lave dei due sistemi vulcanici, la cui vicinanza alla città può essere facilmente verificata affacciandosi dal piazzale Garibaldi, poi sedimenteranno ancora le ghiaie e le sabbie portate a valle dall’antico corso del Tevere.
    La lunga formazione geologica che è stata brevemente descritta dà conto del particolare aspetto a terrazzamenti del colle: la piazza antistante San Petro in Montorio, quella più in alto del Fontanone, il Piazzale Garibaldi sono dei naturali balconi che si sono venuti a formare sulla cima delle dune di sabbia.
    Questa particolare natura geologica è però anche causa della instabilità dei versanti del colle, e poiché essa è comune al Campo Vaticano e a Monte

    Un convoglio passa sul ponte ferroviario della Valle delle Fornaci.

    Mario, fu una delle cause che concorsero al crollo delle torri della basilica di San Pietro e che furono motivo di onta per Bernini.
    Le argille azzurre risalenti a 2 milioni di anni fa affioranti venivano utilizzate nelle fornaci disseminate ai piedi del colle del Gianicolo.
    Dalle cave ai piedi del Gianicolo a partire dal II secolo avanti Cristo verrà cavato il tufo di Monteverde, detto anche cappellaccio. Con questo tufo furono edificati alcuni importanti edifici della Roma antica tra quali alcuni tratti delle Mura Serviane, oppure nella costruzione di alcune parti del teatro di Ostia antica.
    Ma il Gianicolo, per la sua vicinanza al Campo Vaticano, intreccia la sua storia con quella del martirio e della crocifissione di San Pietro. Non è nota la parte più antica della tradizione e come questa si sia stabilita nel tempo, quello che è noto è che a lungo il Gianicolo è stato ritenuto il luogo del martirio di Pietro.
    Analogamente non è nota in dettaglio la storia della piccola chiesa sorta su una delle terrazze naturali. Ne viene per la prima volta ricordata l’esistenza nel Liber Pontificalis nel IX secolo dopo Cristo. Si sa poi che nel 1130 con

    Una delle fornaci in funzione fino ai primi anni Sessanta del Novecento.

    una bolla di Innocenzo VIII, il monastero e la chiesa vengono inglobati nei possedimenti dei monasteri benedettini di San Pancrazio e San Clemente. Prima del 1280 passa ai Celestini e quindi, in epoca non precisata, ai Fratelli Ambrosiani, i quali, una volta trasferitisi a San Pancrazio, la cedettero alle monache benedettine, le quali si estinsero nel corso del XV secolo.
    Sisto IV con una bolla del 1472 e poi con una successiva del 1481 concesse la chiesa, il convento e un ampio pezzo di terreno al beato Amedeo Menez da Silva e alla sua congregazione francescana detta degli Amadeiti, dal nome Amedeo. Sarà Amedeo Menez da Silva che, visto lo stato di completa fatiscenza di chiesa e convento, a partire proprio dal 1481, provvide ad opere di restauro che compresero l’abbattimento della vecchia chiesa e la ricostruzione della nuova.
    Vasari afferma che la ricostruzione della chiesa venne fatta da Baccio Pontelli, ma di ciò non c’è alcuna altra testimonianza. L’impegno economico fu di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, e saranno proprio i reali di Spagna a chiamare Bramante a costruire il tempietto lì dove, secondo la tradizione quattrocentesca, era avvenuto avvenuto il martirio di San Pietro.

    Roma, 13 novembre 2019

  3. La chiesa cristiana e il tempio pagano, un’affascinante convivenza: San Lorenzo in Miranda al Tempio di Antonino e Faustina

    Scrive Stendhal, il 5 ottobre 1828, nelle sue “Passeggiate romane”: «È il magnifico tempio di Antonino e Faustina. Bisogna venirci subito, appena

    San Lorenzo in Miranda.

    arrivati a Roma, se sì vuol comprendere che cosa era un tempio antico. La via Sacra vi passava davanti. Dieci grandi colonne di cipollino alte quaranta piedi, tutte di un blocco. Provate a paragonare tutto ciò alle miserabili basiliche che Parigi costruisce attualmente, rovinando l’erario e scontentando i contribuenti. L’architettura diventa sempre più insopportabile». Stendhal ci parla del meraviglioso tempio romano proprio all’ingresso del Foro romano. C’è altro però: al suo interno si nasconde una chiesa cristiana: San Lorenzo in Miranda degli Speziali. Un nome che contiene già una serie di informazioni su di essa. San Lorenzo perché è dedicata a an Lorenzo martire, del quale sono conservate qui alcune reliquie. Degli Speziali,  perché Martino V, nel 1430, affidò questo luogo all’Universitas Aromatariorum Urbis, la sede degli Speziali per gli incontri di preghiera e crescita spirituale, noto come Nobile Collegio Chimico Farmaceutico.
    Ancora oggi la chiesa è la sede del Nobile Collegio dei Farmacisti, conosciuto come confraternita, ma in realtà è un ente civile nato con lo scopo di fare del bene alle persone, quando fu istituito molti degli Speziali erano cattolici.
    Quale allora la storia di questa chiesa dentro ad un tempio?

    San Lorenzo in Miranda in una foto di fine Ottocento.

    Le prime comunità cristiane di Roma hanno spesso utilizzato alcune domus romane come chiese. Successivamente hanno iniziato anche a occupare i templi pagani. Il primo tempio divenuto una chiesa è il Pantheon e tale trasformazione avvenne durante il pontificato di Bonifacio IV, cioè tra il 608 ed il 615 dopo Cristo, quindi trecento anni dopo Costantino. Il tempio romano era composto da una cella, una grande stanza nella quale entrava il sacerdote, dove era collocata la statua della divinità. Questo spazio era delimitato da una serie di colonne. In base alla collocazione delle colonne il tempio era definito prostilo, cioè con le colonne solo davanti, oppure anfiprostilo, con le colonne avanti e dietro, o ancora periptero, con le colonne su tutti i lati.
    Entrando oggi in San Lorenzo in Miranda di fatto ci si trova all’interno della cella di un antico tempio prostilo ed esastilo, perché le colonne sono sei, una volta occupata da una gigantesca statua di Faustina, alla quale il tempio era dedicato. Successivamente il tempio fu dedicato anche al marito di Faustina, Antonino Pio. Il tempio fu eretto nel 141 dopo Cristo, accanto alla Basilica Aemilia infatti, per onorare la moglie di Antonino Pio che era

    San Lorenzo in Miranda.

    appena morta ed era stata divinizzata dal Senato. Venti anni dopo, morto anche l’imperatore, il tempio venne intitolato anche a lui. La facciata presenta una doppia trabeazione. Sulla più antica, quella inferiore, è scritto: DIVAE FAUSTINAE EX. S. C., Senatus Consultus. Su quella più recente, posta più sopra, è stata aggiunta l’iscrizione DIVO ANTONINO ET. Le due iscrizioni sottolineano il fatto che la doppia dedicazione sia avvenuta in tempi diversi.
    I sacerdoti accedevano alla cella tramite una gradinata, che si è conservata, che dava proprio sulla Via Sacra. Al termine della gradinata si ergeva l’altare per i sacrifici.
    La chiesa attuale oltre la cella occupa parte del pronao del tempio di Antonino e Faustina. La cella è costruita in opera quadrata di peperino; sui due lati maggiori corre un fregio marmoreo, con la rappresentazione di grifoni e motivi vegetali. In origine la cella era rivestita di marmo. Esternamente si vede che il podio, l’alzata della cella prima delle colonne, è in tufo. Originariamente non era così. I buchi che ora vediamo servivano a fissare tramite delle grappe le lastre di marmo. Tra il 1362 e il 1370 Urbano

    San Lorenzo in Miranda – Interno.

    V autorizzò la rimozione delle pareti in marmo del tempio, divenuto ormai una chiesa, e la riutilizzazione di questo marmo per la basilica lateranense.
    Probabilmente questo tempio fu trasformato in chiesa tra il VII e l’VIII secolo, anche se non abbiamo un’evidenza storica o archeologica che possa darci testimonianza certa di una data. Nel 1050 in un testo famosissimo, i Mirabilia Urbis, una guida per i pellegrini che venivano a Roma, si trova il primo riferimento a questa chiesa.
    Un secondo testo che ci parla di questa chiesa è del 1192; è un catalogo delle chiese di Roma, il Liber Censuum di Cencio Camerario, futuro papa Onorio III, appartenente alla famiglia Savelli. Questi fu detto anche Cencio camerarius, perchè aveva ricoperto, dal 1188, la carica di camerlengo. Da questo libro si evince che alla chiesa era stato annesso un monastero. Tutte le grandi chiese, mete di pellegrinaggio, avevano annesso un monastero che serviva sia per la gestione della chiesa che per l’accoglienza dei pellegrini e dei poveri. Qui fu poi creato un monastero detto Miranda, “quod vocatur de Mirandi”. Non c’è un’interpretazione univoca dell’appellativo “in miranda”. Probabilmnete ciò fa riferimento al fatto che il complesso era circondato dalle bellezze del Foro, in questo caso la parola miranda starebbe per bella vista, ma tale appellativo potrebbe anche derivare da una benefattrice di nome Miranda o, più ancora, dal cognome di una famiglia, “de Miranda”, che è attestata da una lapide sepolcrale presente in San Giacomo degli Spagnoli.

    San Lorenzo in Miranda in una foto di fine Ottocento.

    Nel 1430 Martino V, il papa raffigurato nella tela sopra il portale principale, concesse tutto il complesso architettonico all’Università degli Speziali che è ancora proprietaria di questo ambiente. Nel 1536, in occasione della visita dell’imperatore Carlo V a Roma, che doveva passare sulla Via Sacra, si decise di liberare l’antico tempio pagano dagli edifici che nel frattempo gli erano cresciuti intorno, e che vennero perciò demoliti. La demolizione rese le strutture principali del tempio nuovamente visibili, ma comportò anche l’abbattimento di tre cappelle laterali della chiesa che erano disposte intorno al tempio stesso.
    Bisogna ricordare che la Via Sacra fu, fino all’avvento del governo fascista e alla creazione di Via dei Fori Imperiali, l’unico asse viario percorribile da processioni e parate. La facciata principale della chiesa, così come quella del tempio, sono quindi quelle che insistono sulla Via Sacra e guardano al Foro, anche se oggi l’ingresso avviene dai Fori Imperiali. La porta principale era quindi quella che guarda sul Foro. Ma nel tempo il Foro si era ricoperto di terra e lentamente il piano di calpestio si era innalzato di diversi metri rispetto a quello originale tanto che, già nel 1602, fu necessario ricostruire la chiesa più in alto.

    Martirio di San Lorenzo – Pietro da Cortona – San Lorenzo in Lucina.

    Oggi esiste un grande dislivello tra il piano di calpestio della Via Sacra e l’ingresso della chiesa dal lato del Foro perché gli scavi archeologici dell’Ottocento, e soprattutto quelli del Novecento, hanno riportato la situazione all’originale, fino a liberare l’intero podio del tempio, che oggi può essere ammirato in tutta la sua bellezza.
    La facciata di San Lorenzo in Miranda sul Foro è barocca a due ordini ed è preceduta da dieci colonne in marmo bianco che appartenevano al tempio.
    Quando tempio il tempio di Antonino e Faustina era in attività, coloro che volevano partecipare al culto imperiale si radunavano alla base della gradinata e assistevano ai sacrifici che venivano fatti sull’altare. Quei animali di varie specie venivano uccisi e parte dei loro resti venivano portati dai sacerdoti del culto dentro la cella, solo i sacerdoti potevano accedere a questo ambiente, per poter essere bruciati davanti alle statue di Faustina e Antonino, così che il sacrificio potesse raggiungere le due figure imperiali a cui era stato destinato. La gente assisteva a questa cerimonia sacra dall’esterno e seguiva ciò che accadeva grazie al fatto che intorno alla cella stessa c’erano le colonne che lasciavano spazio sufficiente per la visibilità.
    La chiesa ha un affaccio panoramico anche sulla terrazza della Basilica Aemilia. Qui è interessante soffermarsi perché guardando questa terrazza è facile capire come la basilica cristiana sia derivata in maniera naturale dalla struttura pagana e come, nel contempo, essa ne sia una modificazione significativa.

    Resti della Basilica Emilia

    La basilica pagana, infatti, era costituita da una grande navata centrale utilizzata come ambiente di riunione, di rappresentanza, d’incontri d’affari, fiancheggiata da navate minori, divise con colonne e pilastri che si apriva sul foro e non aveva alcuno specifico orientamento. Il gran numero di colonne presenti all’interno dell’ambiente sorreggevano un tetto a capriate.
    Questa particolare organizzazione degli spazi rendeva la basilica romana un edificio adatto alla trasformazione in luogo di culto poiché i fedeli potevano essere accolti al suo interno, cosa che nel tempio non accadeva, e contemporaneamente le alte mura che la delimitavano creavano uno spazio intimo che proteggeva da sguardi esterni e contemporaneamente permetteva al sacerdote di vedere e controllare gli adepti.
    Nel mondo cristiano l’ingresso della basilica romana, che era sul lato lungo, viene spostato però sul lato corto in modo che la regolarità dello spazio delimitato dalle colonne lungo la navata centrale crei una naturale traiettoria visiva privilegiata che porta lo sguardo verso l’altare, ovvero il centro spirituale e religioso dove si svolge la liturgia. Le absidi laterali dell’antica basilica romana diventeranno nel tempo cappelle laterali.
    Sull’altro lato di san Lorenzo in Miranda è invece possibile vedere la parte posteriore della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. L’edificio è costituito da due basiliche una posta sull’altra, quella inferiore è ricavata dal piccolo tempio circolare di Romolo di cui conserva il portale.

    Roma, 5 ottobre 2019

  4. Cappella della Santissima Trinità al Monte di Pietà

    Nascosta dietro un cancello, nel cortile interno del Palazzo del Monte di Pietà, la grande cappella dedicata alla Santissima Trinità, totalmente rivestita di marmi policromi e di decorazioni a stucco è un gioiello di architettura barocca praticamente sconosciuta.

    Cappella del Monte di Pietà.

    Nel 1639 l’Arciconfraternita del Monte di Pietà commissionò i lavori di ristrutturazione di questa cappella a Francesco Peperelli, un architetto attivo a Roma nella prima metà del XVII secolo. Giovanni Antonio de’ Rossi subentrò al Peperelli, che morì nel 1641. Ma a concludere i lavori nel 1730, rispettando il progetto originale, fu Carlo Francesco Bizzaccheri. Entrando nel piccolo vestibolo quadrato che introduce alla cappella, costruito fra il 1700 e il 1702, si resta subito colpiti dalla bellezza del rilievo di Michele Maglia al centro della volta, dal tondo raffigurante il Padre Eterno in cielo attorniato da angeli e dalla splendida ghirlanda di fiori in stucco dorato che lo circonda, opera di grande maestria di Niccolò Berrettoni, Giovanni Maria Galli da Bibbiena e Filippo Ferrari.
    Dall’atrio di entra nella cappella di forma ovale. L’oro degli stucchi e i colori accesi dei marmi che rivestono le pareti contrastano con il legno delle porte e il bianco candido delle statue nelle nicchie e dei grandi bassorilievi sopra l’altare.

    Cappella Pio Monte – Volta.

    Le statue rappresentano le Virtù teologali, Fede, Speranza e Carità, e furono eseguite rispettivamente da Francesco Moderati, Augusto Cornacchini e Giuseppe Mazzuoli, con l’aggiunta dell’Elemosina di Bernardino Cametti, che simboleggia l’aiuto dato dalla confraternita dei bisognosi. Lo straordinario bassorilievo sull’altare è opera di Domenico Guidi, che la eseguì nel 1676, e rappresenta una Pietà dall’insolito schema compositivo. Gli altri due bei bassorilievi a destra e a sinistra dell’altare rappresentano “Tobia e l’Angelo”, opera di Pierre II Le Gros, e “Giuseppe in Egitto” di Jean-Baptiste Théodon.
    La volta fu decorata nel 1696, secondo il progetto dell’architetto Francesco Bizzaccheri, con cornici, conchiglie e ornamenti vegetali in stucco dorato che uniscono i medaglioni in stucco bianco eseguiti da Michele Maglia, Lorenzo Ottoni e Simone Giorgini e raffiguranti i momenti salienti della nascita del Monte di Pietà.
    Il Palazzo del Monte di Pietà si affaccia su una deliziosa piazzetta con la vivacità derivante dalla composizione scultorea del “Cristo al sepolcro”, simbolo dell’Istituto, dagli stemmi, dalla fontana e dall’alto orologio.

    Cappella Pio Monte di Pietà – Domenico Guidi.

    Il “Monte” – ideato con intenti caritativi dal frate minore Giovanni Maltei da Calvi nel 1539 e passato dalla prima sede posta ai Banchi Vecchi a quella procuratagli da Sisto V ai Coronari – acquistò nel 1603 questo cinquecentesco palazzo, qui costruito dal Mascherino per il cardinal Prospero Santacroce e che allora era limitato alla parte centrale dell’attuale edificio. Intervennero successivi ampliamenti, fino ad occupare l’enorme isolato attuale.
    Si possono notare, fra gli altri, i contributi del Maderno, aiutato dal giovane Borromini, per il primo ampliamento della facciata principale, del Paparelli per la ricca cappella, di Nicola Salvi per la facciata posteriore, 1735 – 1740.
    Nel 1762 venne costruito il cavalcavia detto “Arco del Monte”, che collega il palazzo all’attiguo Palazzo Barberini, allora proprietà del Monte. Da notare, all’interno del cortile, vari monumenti e ricordi pontifici.
    La funzione del Monte di Pietà, che si introdusse a Roma in ritardo, dopo che era stato sperimentato in altre città dell’Italia centrale, fu provvidenziale in un’epoca di grande penuria economica e mancante di istituzioni assistenziali. Esso nacque dal proposito di combattere l’usura e il suo carattere fu quello delle redimibilità del “pegno” dietro rimborso, con l’aggiunta di un modesto interesse corrispondente alle spese di gestione. Spesso la beneficenza di privati o di confraternite liberava le polizze dal dovere di restituzione del prestito.

    Roma, 15 settembre 2019