Articolo

I fori romani, dentro il cuore di Roma antica

di Andrea Giardina

Pubblichiamo un articolo di Andrea Giardina, storico di Roma Antica, apparso nella rivista National Geographic il 1 giugno 2018.
I secoli di incuria e gli interventi del Ventennio fascista hanno profondamente cambiato il loro aspetto. Studi recenti ci dicono che i fori erano spazi chiusi da alte mura, isolati rispetto al fermento della vita

Il Foro Romano in una rara immagine del 1911. Si ringrazia Roma Sparita.

cittadina. Al loro interno, però, mille attività prendevano vita: c’era spazio per il sacro e il profano, il lavoro più febbrile e lo stanco chiacchiericcio degli sfaccendati.
Ricostruire mentalmente le architetture, gli spazi, la vita che si svolgeva nella zona dei Fori di Roma, è un’impresa difficile e appassionante. Il problema più ovvio è rappresentato da ciò che manca. Ogni tanto qualcuno si diverte a calcolare quante sono le pagine perdute dei giuristi romani rispetto a quelle pervenute nel Digesto, quante le epigrafi, quanti gli storici e i poeti cancellati per sempre. Si potrebbe fare lo stesso con i resti dei Fori: quanti metri cubi di materiali – pietre, marmi, mattoni, malta – rimangono oggi degli antichi edifici romani? Il calcolo, anche se inevitabilmente approssimativo, darebbe la dimensione tangibile del nostro irrimediabile lutto.

Non meno arduo è il secondo ostacolo, rappresentato da ciò che resta. Le rovine, infatti, non sono soltanto la parte mancante di un tutto, ma esseri morbosi, che traggono compiutezza dalla mutilazione e vitalità dal

Lavori per l’apertura di Via dei Fori Imperiali. Fotografia Istituto Luce.

disfacimento.
Condizionati dall’enormità di ciò che manca e dalla prepotenza di ciò che resta, non abbiamo grandi possibilità d’iniziativa. Ma nel caso dei Fori tutto questo è reso ancora più arduo dal fatto che essi, già carichi di simboli e di ideologie nell’antichità, sono stati oggetto di efficaci manipolazioni in età contemporanea. Il centro monumentale di Roma è stato “reinventato” – è questa la parola esatta – dagli sbancamenti, dai restauri e dagli usi che, nel secolo scorso, ne ha fatto il regime fascista.
Per comprendere questa situazione, dobbiamo partire da una frase di Benito Mussolini, infinite volte citata. Nel 1925 il duce rivolse in Campidoglio un solenne discorso al governatore di Roma, in cui tracciò il principio che avrebbe dovuto ispirare il nuovo piano regolatore: “Farete largo intorno all’Augusteo, al teatro Marcello, al Campidoglio, al Pantheon… I monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine”. Ciò significava sventrare, abbattere, aprire slarghi e arterie di scorrimento laddove prima si

Mussolini da unc olpo di piccone al tetto di un edificio che domina i Fori Imperiali. Fotografia Istituto Luce.

trovavano edifici medievali, rinascimentali e barocchi, chiese, vicoli e piazze che componevano uno straordinario tessuto urbano in cui convivevano le culture e le forme di molte epoche.
Non meno celebre della frase mussoliniana è il giudizio che dei suoi risultati diede uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano, l’archeologo e giornalista Antonio Cederna: “Un deserto punteggiato di antichi monumenti raschiati e isolati dal loro contesto edilizio, una frigida e stralunata sequenza antologica in un’atmosfera metafisica: questa l’immagine di Roma a venire, partorita dal sonno della ragione”.
Oggi non manca chi, soprattutto tra gli architetti e gli storici contemporaneisti, è incline a una certa indulgenza. Si sottolinea per esempio il fatto che gli sventramenti fascisti hanno portato alla luce, offrendole allo studio e alla contemplazione, anche zone archeologiche su cui insisteva un’edilizia popolare scadente, che solo un’energica dittatura avrebbe potuto demolire.

Ricostruzione virtuale del Foro Romano.

Resta comunque il fatto che gli interventi fascisti hanno inventato una nuova immagine della Roma antica, completamente diversa da quella autentica.
Il caso dell’attuale via dei Fori imperiali è esemplare. Quella strada, che allora si chiamava via dell’Impero, divenne il percorso trionfale del regime, lungo il quale le forze della nuova Italia guerriera sfilavano davanti alla folla esaltata. Si ripeteva, in questo caso, l’equivoco che caratterizzava l’intero rapporto tra il fascismo e la romanità. Molti ritenevano che il regime, riscoprendo il legame con la Roma antica, ne avesse anche restituito le immagini originali, mentre era vero il contrario: le immagini attuali creavano quelle antiche.
Gli antichi trionfi si svolgevano anch’essi tra immense adunate di folla: prima di ascendere al Campidoglio, il corteo passava attraverso il Circo Flaminio, che poteva contenere decine di migliaia di spettatori, e l’ancor più grande Circo Massimo. Ma la cerimonia romana aveva uno spiccato carattere religioso, non privo di carnevalesche inversioni di ruolo (ai soldati era addirittura consentito di prendere in giro il loro condottiero). Nulla di più lontano dalla fredda solennità delle parate contemporanee.
La forma data dal fascismo alla zona dei Fori ha dunque plasmato una nuova immagine del passato. Lo si vede chiaramente nei film dedicati alla Roma antica (da ultimo persino nell’anticonformistico Il gladiatore), dove è quasi d’obbligo una sfilata di legionari romani che incedono a passo cadenzato, come i nazisti o i fascisti, lungo un percorso che ricalca l’allora inesistente via dei Fori imperiali. Negli ultimi anni, il cinema ha molto

Ricostruzione del tempio di Marte Ultore.

innovato rispetto alle fredde scenografie di una volta, ma la ricostruzione dell’aspetto e della funzione della zona dei Fori è rimasta intatta, segno evidente che le manipolazioni moderne sono state molto potenti.
Sappiamo, anche grazie a recenti campagne di scavi, che in età romana la spazialità della zona dei Fori era completamente diversa, perché si articolava in una pluralità d’insiemi, ognuno dei quali – in quanto Foro di Cesare, di Augusto, di Nerva, di Traiano – aveva un certo margine di autonomia, fisica e ideale. Ma il tutto era a sua volta un “sistema”.
È difficile trovare un altro luogo del pianeta in cui un’area tutto sommato esigua (circa 10 ettari) sia stata tanto lavorata, cesellata, stratificata dall’uomo, in cui siano accadute tante cose, in cui si siano affollati tanti messaggi (politici, religiosi, sociali), in cui gli uomini si siano tanto accaniti nell’imprimere simboli sulla materia. Il rispetto dei canoni del genere “Foro” non escludeva deviazioni, varianti, invenzioni, colori diversi. In fondo, il vero fascino dei Fori doveva essere quello, rarissimo, che promana dalla creatività che si sprigiona dal canone, dall’invenzione che non sovverte la norma.
L’esiguità del suolo disponibile era inversamente proporzionale alla sua importanza e alla volontà dei grandi imperatori di lasciarvi un’impronta eterna. L’area era tutta un susseguirsi di piazze, portici, esedre, gradinate, fontane, biblioteche, templi, basiliche, iscrizioni, statue, mosaici, dipinti. Come in tutti i centri monumentali dei grandi imperi – a Roma come a Parigi, a Londra come a Mosca – la scena era interamente dominata dal dialogo tra la guerra e la pace. Il messaggio cresceva su se stesso in modo parossistico: la pace era una creatura della guerra.

Basilica Giulia nel Foro Romano. Resti.

Gli splendidi e sontuosi monumenti dei Fori erano un portato delle conquiste, perché costruiti con il ricavato di prede belliche o con i tributi delle province. La civiltà aveva i suoi valori, espressi dall’arte, dai libri e da parole ornate come i monumenti, ma richiedeva un prezzo di sangue e uno sguardo acuto sulle frontiere e sul resto del mondo.
Nel Foro di Augusto, i visitatori erano soggiogati dall’imponenza del tempio di Marte Ultore (“il Vendicatore”) e potevano contemplare le personificazioni delle genti domate da Roma, oltre che scene delle imprese di Alessandro Magno, l’eroe con cui molti condottieri romani vollero identificarsi. Il Foro di Traiano, definito da un archeologo come una grande “biografia in pietra”, era un susseguirsi di emblemi trionfali, statue di barbari soggiogati, insegne di legioni, Vittorie alate, ritratti del vincitore, mentre la Colonna Traiana proiettava verso il cielo il racconto in sequenza della guerra dacica. La gloria terrena faceva ascendere i mortali in cielo, come mostrava il fatto che nella base della colonna fossero custodite, in urne d’oro, le spoglie di Traiano e di sua moglie

Ludus latrunculorum rinvenuto nella Basilica Giulia.

Plotina, sovrani divinizzati: un’eccezione alla norma religiosa secondo la quale nell’area racchiusa dal perimetro sacro della città (il pomerio) non dovessero essere seppelliti cadaveri.
Gli scavi e gli studi recenti hanno restituito un’immagine attendibile dei Fori, che il visitatore odierno, tuttavia, fa fatica ad accettare. I Fori ci appaiono come spazi chiusi da alte mura, isolati rispetto al fermento della vita cittadina, con ingressi spesso di piccole dimensioni, che impedivano lo sguardo dall’esterno. Affiancati alla piazza più antica, il Foro romano, i Fori imperiali erano piazze splendide e improvvise. S’imponeva una monumentalità compressa, e soprattutto una particolare pulsazione, determinata da quell’alternanza fra spazi stretti e slarghi improvvisi, che riapparirà secoli dopo come carattere fondamentale della Roma rinascimentale e barocca, e che è stata quasi ovunque alterata dagli interventi urbanistici dei primi governi del regno d’Italia e poi dallo stile mussoliniano. L’apertura di via della Conciliazione, con la distruzione della Spina di Borgo, è stata uno scempio clamoroso ma non l’unico.
La storia del centro monumentale della Roma antica è anche quella di una lotta, non sempre coronata da successo, per tenere lontane le attività ritenute “sordide” – botteghe, osterie, postriboli e tante altre – dai luoghi insigni, destinati a ospitare la rappresentazione del potere, l’amministra-

Così detto “gioco delle fossette” rinvenuto nella Basilica Giulia.

zione della giustizia, le dimore divine, le cerimonie solenni.
Nel 1939, nel bel mezzo della retorica fascista della romanità, lo storico francese Jérôme Carcopino pubblicò il suo capolavoro, destinato a un clamoroso successo editoriale: “La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero”. Grazie alla testimonianza degli autori dell’epoca, lo studioso restituì una Roma inattesa: animata da una brulicante mescolanza di voci e di movimenti, di attività pubbliche e private, una città stordita dai colori, dagli aromi e dai fetori, che poteva ricordare, per taluni aspetti, la vivacità dei suk arabi. Ma questa era l’atmosfera dei quartieri popolari, dei vicoli stretti e dei crocicchi, non quella degli spazi insigni, dove si stagliavano monumenti sontuosi e venerandi.
In età imperiale, il principio secondo il quale il decoro dell’Urbe non potesse conciliarsi con l’invadenza delle piccole attività commerciali ispirò la politica di numerosi imperatori. In alcuni versi, Marziale loda un editto con il quale Domiziano aveva cercato di mettere ordine in questa materia delicata e scabrosa: “Dove prima si vedeva un sentiero, ora possiamo percorrere una via”, scriveva il poeta. “Nessun pilastro è ora circondato da bottiglie legate tutt’intorno, né il pretore è costretto a camminare in mezzo al fango… o nere bettole ingombrano le vie. Barbieri, osti, macellai e cuochi stanno dentro le proprie soglie. Ora possiamo dire che Roma è Roma: prima era una grande bottega”. I Romani sapevano bene ciò che noi sembriamo aver dimenticato: ogni volta che un privato invade un luogo pubblico, un pezzo di stato muore.

Tris e palma feliciter dalla Basilia Giulia.

La vita dei Romani brulicava nei quartieri popolari che si estendevano intorno alla zona dei Fori. Ma non per questo dobbiamo immaginare che le piazze monumentali edificate dai grandi imperatori fossero luoghi algidi, asettici, oppure musei all’aria aperta. Certo, il decoro vi era mantenuto con severità, la pulizia aveva livelli molto più alti che altrove, le opere d’arte abbondavano ovunque, mentre la presenza ravvicinata dei simulacri degli dei incuteva rispetto e devozione.
Eppure chi si aggirava nei Fori, soprattutto in alcune ore del giorno, sentiva inevitabilmente le declamazioni degli scrittori in cerca di fortuna, che leggevano le loro opere a un pubblico estemporaneo, il vociare dei cittadini che commentavano gli editti affissi in pubblico, oppure le arringhe pronunciate dagli avvocati dentro le basiliche, e le urla delle claques da loro prezzolate. Per gran parte dell’anno, la città era preda di una vera e propria “febbre giudiziaria”, come è stata efficacemente definita, un morbo che s’impadroniva non solo dei litiganti e dei loro avvocati, ma anche della folla dei curiosi, attirati nelle aule giudiziarie per seguire lo scandalo di turno e le esibizioni degli oratori.

Diagramma a cerchio dalla Basilica Giulia.

Ma nei Fori non mancavano nemmeno attività più leggere, come testimonia, tra l’altro, un celebre graffito a scacchiera trovato sul pavimento della Basilica Giulia, utilizzato come tavola per un gioco d’azzardo. Un “documento” come questo fa inevitabilmente pensare al luogo comune – già antico – della plebe romana oziosa e fannullona, nemica del lavoro, amante di ogni piacere. Ce li immaginiamo, quei Romani, trascorrere le loro giornate nei Fori a giocare d’azzardo, a fare scommesse sulle prossime corse del Circo, a parlare delle virtù di una famosa prostituta.
Per quanto oleografico, questo ritratto può essere preso come autentico, ma a una condizione: quella di considerarlo come una costante sociologica di tutte le grandi metropoli del pianeta prima della Rivoluzione industriale. Città molto popolate, prive di grandi industrie e di un terziario sviluppato, determinavano inevitabilmente un altissimo tasso di disoccupazione che non aveva nulla a che fare con la vocazione esistenziale degli individui.

Roma, 17 febbraio 2019


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