Recensione

La Nostra Cruda Logica

di Pina Baglioni

Comprendere la logica interna di un conflitto, come quello arabo-israeliano, che ha attraversato il

Fila al checkpoint

Fila al checkpoint

Novecento e che tuttora si perpetua con picchi di estrema recrudescenza, non è semplice, e spesso il pregiudizio o la mancanza di conoscenza condizionano la capacità di rovesciare il punto di vista.
“La Nostra Cruda Logica”, libro a cura di Breaking The Silence, un’associazione di veterani dell’esercito israeliano, edito da Donzelli, che per la prima volta lascia parlare senza il filtro dell’istituzionalità i militari di Tel Aviv, rappresenta un’occasione imperdibile di riflessione. A raccontarsi sono ex combattenti che provano a «rompere il silenzio», rivelando la natura straniante della loro esperienza: assistiamo così in queste pagine a un «profondo esercizio di autoanalisi dei narratori, della loro umanità e di quella del loro mondo» scrive Alessandro Portelli nella prefazione.


Un libro di storia orale, dunque, che ci conduce nei meccanismi più complessi di una logica – essenzialmente di prevenzione di possibili attentati – tanto implacabile quanto ormai «normale» per chi sente di fare il proprio dovere agendo nel rispetto delle regole all’apparenza neutrali. La ripetitività e l’ordinarietà di certi comportamenti aprono invece a violazioni, altrove considerate inaccettabili, dei diritti elementari. Il supporto all’occupazione dei territori palestinesi si basa sull’idea che la presenza dell’esercito israeliano a Gaza e nella West Bank (Cisgiordania) abbia una funzione protettiva e che lo scopo sia salvaguardare il paese dal terrorismo.

Una donna palestinese aggredita da un cane addestrato all'anti-terrorismo in forze nell'esercito israeliano.

Una donna palestinese aggredita da un cane addestrato all’anti-terrorismo in forze nell’esercito israeliano.

Le 145 testimonianze raccolte dalla Breaking The Silence raccontano una storia diversa: emerge infatti un intento almeno altrettanto offensivo che difensivo. Nelle loro stesse parole, i soldati rivelano che lo scopo della loro presenza è accelerare l’acquisizione israeliana dei territori, paralizzando la vita politica e sociale e, in ultima analisi, contrastare qualsiasi possibilità d’indipendenza palestinese. Nessuno dei soldati che parlano in questo libro mette in discussione il diritto di Israele a proteggere l’incolumità dei propri cittadini. Ma la vera posta in gioco per tutta l’area è quella di riuscire a proteggere se stessi senza annientare la vita dell’altro.
«Le ragioni dei palestinesi dobbiamo cercarle altrove» scrive ancora Portelli nella prefazione «l’argomento del libro non è la Palestina, ma Israele». Lasciando la parola ad alcuni soldati, la questione è che «vuoi avere la sensazione che ci sia uno scopo nazionale per il fatto che sei lì» e «perché siamo così, come siamo arrivati a questo punto».
Insomma, i soldati israeliani cominciano a domandarsi se questo sia il modo migliore, più morale e, a lungo termine, più realistico di perseguire questi fini, se questo corrisponda ai principi che hanno fondato il paese al quale appartengono e che amano e servono.
L’identità dei testimoni è mantenuta riservata dall’organizzazione, in quanto senza la garanzia dell’anonimato sarebbe stato impossibile rendere pubblico il materiale che viene presentato.
Pubblichiamo due delle 145 testimonianze dei soldati israeliani raccolte nel volume

Testimonianza n. 46, pagg. 129-130
I posti di blocco rovinano la vita della gente
Unità: Brigata Nahal
Località: Ramallah
Anno 2002

Il checkpoint di Qalandiya rovinava letteralmente la vita della gente.

Fila di lavoratori palestinesi al checkpoint.

Noi eravamo soliti chiamarlo cosi, lo «sciupavite», io e un altro ufficiale. Le famiglie erano completamente spaccate. I villaggi vicini improvvisamente si trovarono attraversati da una barriera. Lì c’era la Compagnia del 932° Battaglione della Brigata Nahal, un plotone degli studenti della yeshivah (un’istituzione educativa ebraica che si centra sullo studio dei testi religiosi tradizionali, principalmente quello del Talmud e della Torah, N.d.A.). È gente malata, completamente pazza, odiano gli arabi, sono disposti a rischiare la galera pur di fare qualcosa agli arabi. Sono senza Dio, indossano uno yarmulke (o kippah, il copricapo usato correntemente dagli ebrei osservanti, N.d.A.) ma quando sono nell’esercito sono gente senza Dio. Turni di otto ore al checkpoint. Ci sono due lati al posto di blocco, con un sergente e un comandante di squadra. Durante il giorno ci sta un ufficiale, la notte ci sono un sergente e un comandante di squadra che pattugliano lì intorno, per controllare che nessuno passi di nascosto. Era il Far West, l’area intorno al checkpoint. Cosa intendo per Far West? Gas lacrimogeni, trappole esplosive quando viene rotta la recinzione, dove ci sono dei buchi e chiunque può sgattaiolare dentro. Non sto parlando di terroristi, parlo di donne e bambini che ci passano ogni giorno. Quei passaggi li usano i bambini che non vogliono fare tardi a scuola, le donne che vanno dal dottore. Così quando c’è un mattone un po’ staccato, proprio in corrispondenza del buco, ci piazzi un candelotto lacrimogeno senza la sicurezza, in modo che scatti quando qualcuno ci mette il piede sopra. Sparavano continuamente in aria. E c’erano non solo spari in aria, ma anche quello che viene chiamato fuoco preventivo. Si mira a una pietra vicino alla persona e si spara.

Un muro di fuoco
Un muro di fuoco, esattamente. Usavamo pallottole di gomma, flashbang, gas lacrimogeni. Davvero un Far West. Nessuno sa, nessuno sente niente. Nessuna supervisione.

Soldati israeliani spruzzano acqua bollente addosso ad un bambino.

Soldati israeliani spruzzano acqua bollente addosso ad un bambino.

Non c’era una gerarchia con un comandante che dava gli ordini?
Niente.

Allora ogni soldato fa quel che vuole?
Si. È il posto preferito degli studenti delle yeshivah, quel Far West, perché sanno che possono fare quello che vogliono, scatenarsi. Ricordo che molte volte tenevamo in stato di fermo solo così, per gusto di farlo, perché qualcuno cominciava a spingere al checkpoint, o qualcuno tentava di arginarlo. Lo metti a sedere sulle lastre di calcestruzzo e lo tieni lì in secco per tutto il giorno. Per principio, «lascia stare il mio checkpoint».

Dipendeva dal giudizio di ogni singolo soldato?
Tutto il checkpoint era il Far West. Ognuno fa quello che vuole.

Arrivano a una casa e la buttano giù
Unità: Brigata Kfir
Località: Distretto di Nablus
Anno: 2009 

Durante il servizio che hai prestato nei Territori, cosa ti ha colpito di più?
La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le ispezioni che abbiamo fatto a Hares. Ci dissero che c’erano sessanta case da controllare. Pensai che dovesse esserci stata qualche segnalazione da parte dei servizi. Cercavo di trovarmi una giustificazione.

Ciò che rimane di una scuola palestinese dopo un bombardamento israeliano. AFP PHOTO / MARCO LONGARI (Photo credit should read MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)

Ciò che rimane di una scuola palestinese dopo un bombardamento israeliano. AFP PHOTO / MARCO LONGARI (Photo credit should read MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)

È successo di giorno o di notte?
Di notte.

Eravate usciti in pattuglia?
No, c’era tutta la divisione. Fu un’operazione condotta a livello di battaglione, i soldati andarono in ogni parte del villaggio, assunsero il controllo della scuola, sfasciarono le serrature, le aule. Un’aula fu utilizzata per gli interrogatori dello Shin Bet (Servizi di sicurezza), un’altra per i detenuti, una per farci riposare i soldati. Ricordo che mi dette particolare fastidio che scegliessero una scuola. Andavamo di casa in casa, bussavamo alle due di notte alle porte delle famiglie. Erano spaventati a morte, le bambine si facevano la pipì addosso dalla paura. Picchiavamo alle porte, c’era un clima fanatico, del genere «glielo facciamo vedere noi». Entravamo nelle case e buttavamo tutto all’aria. 

Come si svolgeva l’azione?
Si raduna tutta la famiglia in una stanza, ci si mette uno di guardia, si dice alla guardia di tener loro il fucile puntato addosso, quindi si perquisisce tutta la casa. Ricevemmo un altro ordine secondo cui tutti coloro che erano nati dal 1980 al… tutti quelli che avevano dai sedici ai ventinove anni, non importa chi fossero, dovevano essere portati via in manette e con gli occhi bendati. Urlavano agli anziani, uno di loro ebbe un attacco epilettico. Continuarono a urlargli. Non parlava l’ebraico, e continuavano a urlargli. Il soldato della sanità lo assisté. Noi facevamo le ronde. In tutte le case in cui entravamo, prendevamo tutti quelli dai sedici ai ventinove anni e li portavano alla scuola. Li misero a sedere legati nel cortile della scuola.

Il motivo di tutto ciò ve lo dissero?
Per scovare armi. Ma alla fine le armi non le trovammo. Furono confiscati i coltelli da cucina. Quel che mi colpì di più fu che ci furono anche i furti. Uno prese venti shekel. La gente entrava nelle case e cercava cose da rubare. Era un villaggio poverissimo. A un certo punto, gli uomini dicevano: «Che rottura, non c’è niente da rubare». «Ho preso qualche pennarello, così posso dire di aver rubato qualcosa». 

Una donna palestinese cammina tra le rovine della sua casa dopo il passaggio delle forze di sicurezza israeliane. PHOTO / THOMAS COEX

Una donna palestinese cammina tra le rovine della sua casa dopo il passaggio delle forze di sicurezza israeliane. PHOTO / THOMAS COEX

Erano cose dette fra soldati?
Fra soldati, dopo l’azione. Faceva un sacco di piacere vedere che la gente era in miseria, gli uomini ne parlavano volentieri. Ci fu un momento in cui qualcuno che sapevamo fosse malato urlò ai soldati, ma un soldato decise di picchiarlo comunque, e così gliene dettero. Lo colpirono in testa col calcio di un fucile, sanguinava, poi lo portarono alla scuola assieme a tutti gli altri.

Cos’altro ricordi di quella notte?
Di cose che mi hanno dato fastidio? Una piccola cosa, ma mi ha dato fastidio. C’era una casa che era stata appena demolita. Hanno un cane per trovare le armi, ma non lo avevano portato, avevano semplicemente distrutto la casa. Da una parte, la madre osservava e piangeva, i bambini erano seduti assieme a lei e la accarezzavano. Vedo quanta fatica fa mia madre per ogni angolo di casa nostra, e loro all’improvviso arrivano e distruggono tutto.

Vuoi dire che distrussero una casa?
Spaccarono i pavimenti, rovesciarono i divani, buttarono in terra piante e quadri, rovesciarono i letti, sfasciarono i mobili, le piastrelle. Ci furono altri episodi minori, ma questo davvero mi dette fastidio. L’espressione delle persone alle quali sei entrato in casa. Vedere questo davvero mi ferì. E dopo tutto ciò, li lasciarono per ore legati e bendati, nella scuola. L’ordine di liberarli arrivò alle quattro del pomeriggio. La cosa era durata più di dodici ore. C’erano dei funzionari di polizia che l’interrogarono uno per uno. 

Bambine tra le case distrutte di Gaza.

Bambine tra le case distrutte di Gaza.

In quell’area c’era stato un attacco terroristico?
No. Non abbiamo trovato armi… Ci sono alcune cose dell’operazione che facemmo a Hares che mi ritornano sempre in mente. 

Ad esempio?
Il modo in cui ci guardavano, quel che passava loro per la testa, per la testa dei loro bambini. Come si fa a prendere a una donna il figlio in piena notte e mettergli le manette e una benda agli occhi?

La nostra cruda logica
Testimonianze dei soldati israeliani dai Territori occupati

Donzelli editore, Roma 2016, pp. 363, euro 30,00


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