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  1. Sant’Onofrio al Gianicolo e la memoria di Torquato Tasso

    Giacomo Leopardi si recò a Roma nel novembre del 1822 e vi soggiornò sino all’aprile del 1823 senza mai gioire davvero di questa

    Giacomo Leopardi – A. Ferrazzi – 1820 circa.

    parentesi romana; anzi Roma deluse molto il giovane Poeta, e da tutti i punti di vista: lo delusero le persone, i parenti, i luoghi. Giacomo portò con sé un solo bel ricordo della Città Eterna: la visita alla tomba del grande poeta Torquato Tasso ospitata nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo. In una lettera al fratello Carlo scrive: «…fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato a Roma».
    Qualche secolo prima, un altro gigante, questa volta di santità, era solito salire fino alla bellissima chiesa-romitorio di Sant’Onofrio: era san Filippo Neri. Così racconta il vedutista Giuseppe Vasi nel 1761: «San Filippo Neri per allettare la gioventù alla parola di Dio, e altresì per allontanarla dalle lusinghe del secolo, soleva nell’alto del giardino di quello convento andare a spasso con li suoi penitenti, e con bella grazia vi introdusse alcune conferenze spirituali, con altri devoti trattenimenti. Perciò i Preti dell’Oratorio ad imitazione del loro santo Fondatore seguitano in ogni festa di precetto dopo il vespro, principiando dal secondo giorno di Pasqua di Resurrezione fino alla festa di s. Pietro Apostolo, a venirvi con gran concorso di uomini devoti, e vi fanno de’ sermoni accompagnati con pii trattenimenti. A tal fine hanno eretto nel medesimo

    Torquato Tasso – Jacopo Bassano.

    luogo, che frequentava s. Filippo tutto il comodo con sedili in forma di teatro, inalberando però sulla cima il segno della s. Croce». Qui fu ospitato François-René de Chateaubriand e Johann Wolfgang von Goethe vi saliva spesso nel corso del suo soggiorno romano. Addirittura Giuseppe Garibaldi, nel 1849, salva la più piccola delle tre campane della chiesa detta “la campana del Tasso”.
    Meta dunque per secoli di poeti, santi e pellegrini, oggi la bellissima chiesa di Sant’Onofrio appare solitaria e semi sconosciuta. È situata in uno dei più straordinari punti di veduta che ci siano a Roma.
    Edificata nel 1419 dal beato Niccolò da Forca Polena grazie alle offerte dei benefattori, tra cui papa Eugenio IV e di facoltose famiglie romane. Fu affidata nel 1466, ai Padri eremiti di san Girolamo. Proprio in quell’anno si tracciò, grazie al gerolamino Jacobelli, la Salita di Sant’Onofrio per raggiungere l’eremo, divenuto intanto santuario, più comodamente dai pellegrini: prima, infatti, si utilizzava uno scosceso e pericoloso sentiero – corrispondente probabilmente a via di Sant’Onofrio – che si inerpicava su quella parte del Gianicolo denominata “Monte Ventoso”. Quando Sisto V nel 1588 elevò la chiesa a titolo presbiteriale sistemò anche la strada, poi lastricata per volere di papa Clemente VIII nel 1600 in occasione del

    Terrazza del Chiostro di Sant’Onofrio al Gianicolo – Albert Eichhorn.

    Giubileo, grazie anche al contributo di alcuni fedeli, fra i quali il cardinale Alessandro Peretti e Camilla Peretti, rispettivamente nipote e sorella di Sisto V.
    Il complesso monumentale di Sant’Onofrio è dunque una delle tappe imperdibili di Roma: è preceduto da un cortile delimitato su due lati da un elegante portico, decorato all’inizio del 1600 dal Domenichino con una serie di affreschi con episodi della vita di San Girolamo. Sul fondo del portico si apre la Cappella della Madonna del Rosario eretta da Guido Vaini per la propria famiglia, di cui si vede lo stemma con leone rampante sopra la porta, con facciata barocca realizzata nel 1620 ed impreziosita dalla serie di Sibille affrescate da Agostino Tassi.
    Accanto al portale di accesso della chiesa invece, incastonata nella parete, si può ammirare la raffinata pietra tombale del beato Nicola da Forca Palena, opera attribuita ad un anonimo artista toscano in cui però si può ben notare l’influsso di Donatello.

    Sant’Onofrio al Gianicolo – Interno.

    Prima di entrare in chiesa, interessante è soffermarsi sul campanile perché si racconta che la campana più piccola abbia a lungo suonato nel 1595, accompagnando Torquato Tasso nei suoi ultimi momenti di vita. Il poeta giunse infatti a Roma da Napoli proprio in quell’anno, dietro la promessa fatta da papa Clemente VIII Aldobrandini dell’incoronazione a poeta in Campidoglio, come era stato secoli prima anche per il Petrarca. Il Tasso però si ammalò gravemente e morì prima di poter presenziare alla cerimonia, proprio qui in una cella del convento, dove aveva trovato riparo e conforto.
    In quella che fu la sua stanzetta è oggi allestito un piccolo museo a lui dedicato che conserva manoscritti, antiche edizioni delle sue opere, la maschera funebre e la pietra tombale che sovrastava l’originario luogo di sepoltura, prima della costruzione del monumento vero e proprio

    Sant’Onofrio al Gianicolo – Baldassarre Peruzzi – Particolare.

    realizzato all’interno della chiesa – grazie alle donazioni degli ammiratori del poeta – dallo scultore Giuseppe De Fabris che lo iniziò nel 1827 completandolo molti anni dopo.
    La chiesa, piccola nelle dimensioni, è a navata unica con cinque cappelle laterali, abside poligonale ed essendo stata costruita tra il periodo tardo medievale e quello rinascimentale/barocco, presenta interessanti soluzioni architettoniche, come per esempio la volta a crociera riferibile alla fase più antica e il sontuoso apparato decorativo ascrivibile invece ai successivi interventi.
    Non mancano i grandi nomi e tra le opere più importanti meritano una menzione gli affreschi con le Storie di Maria ritenuti opera giovanile di Baldassarre Peruzzi; la pala d’altare con la Madonna di Loreto di Annibale Carracci; l’Annunciazione di Antoniazzo Romano e ancora il raffinato monumento funebre dell’arcivescovo di Ragusa Giovanni Sacco, attribuito alla scuola di Andrea Bregno, artista molto attivo a Roma tra 1470 e 1500, posto accanto alla porta della sacrestia.
    Ciò che forse colpisce maggiormente è però la straordinaria decorazione dell’abside con gli affreschi che raccontano gli episodi della vita di Maria, realizzati a due mani: nella parte superiore dal Pinturicchio, Incoronazione, Apostoli, Sibille, Angeli e tondo con Padre Benedicente, in quella inferiore dal Peruzzi, Sacra Conversazione, Adorazione dei Magi e Fuga in Egitto.
    Dal 1946 i Frati Francescani dell’Atonement risiedono presso il convento.

    Roma, 27 ottobre 2019

  2. Quartieri

    Il Mandrione: da baraccati a cittadini  

    Storia di un riscatto

    14._Roma_borgata_Mandrione

    Il Mandrione come appariva negli anni sessanta del nocevento

    Schiacciata tra la linea ferroviaria e i resti imponenti degli Acquedotti, il Mandrione è una strada conosciuta quasi solo dagli automobilisti che vogliono svicolare velocemente dalle trafficatissime via Tuscolana e via Casilina. Eppure, un occhio più attento potrebbe notare sotto gli archi dell’Acquedotto Felice le tracce di quella che è stata una delle più grandi borgate di Roma, nata subito dopo i bombardamenti del quartiere San Lorenzo del 1943. Gli archi accolsero molti di coloro che erano rimasti senza casa e che proprio lì andarono a costruire le loro baracche. continua…

  3. La piccola chiesa di Santa Passera alla Magliana

    L’area, molto popolata, situata tra la riva destra del Tevere e via della Magliana è quotidianamente intasata di traffico. Nulla a che vedere con la desolazione di qualche decennio fa. Qui, nel 1966, Pasolini, insieme

    La piccola chiesa di Santa Passera alla Magliana.

    con Totò e Ninetto Davoli, girò quel miracolo di poesia che fu Uccellacci e Uccellini. E sempre qui, da secoli, resiste un gioiello sconosciuto, una delle tante rarità che Roma – quasi sempre quando e dove meno te lo aspetti – ti regala spunta la chiesetta di Santa Passera, che, piccola e discreta, si affaccia su via della Magliana.
    È meglio subito togliersi il pensiero: il nome. Ai soliti buontemponi sembrerà uno scherzo. O un doppio senso. Anche perché una santa di nome Passera non è inclusa in alcun calendario liturgico e nemmeno Passio in cui vengono narrate le vicende dei primi martiri cristiani. Insomma, le fonti tacciono. E a ragione, perché una santa con questo nome non è mai esistita.
    Si tratterebbe allora della corruzione del nome di un certo Abbas Cyrus, vale a dire Ciro d’Alessandria, santo medico veneratissimo a Napoli e in tutto Meridione.
    Sul tracciato dell’antica via Campana, che in età arcaica correva più o meno su quello dell’odierna via della Magliana, intorno al III secolo dopo Cristo, esisteva un sepolcro, con molta probabilità appartenente a una famiglia

    Chiesa di Santa Passera alla Magliana – Interno.

    agiata, in cui, verso il IV – V secolo, si innestò un oratorio cristiano dedicato alle martiri Prassede e Pudenziana. In questo luogo di culto, secondo alcune fonti durante il V secolo, secondo altre, più verosimilmente, in epoca altomedievale, furono traslate le reliquie dei martiri Ciro e Giovanni di Alessandria, portate a Roma dall’Egitto, per essere preservate dal pericolo imminente di un’invasione da parte degli Arabi.
    Come mai, durante la fase di traslazione, fu scelto un luogo di culto così piccolo e isolato per preservare i sacri resti di Ciro e Giovanni? Alcuni studiosi hanno voluto trovare una correlazione tra l’antica ubicazione delle reliquie martiriali in Egitto e la chiesetta di Santa Passera. In Egitto i resti dei due santi erano stati trasferiti in un santuario che si trovava nella città di Canop, corrispondente più o meno all’odierna città di Abukir, la quale sorgeva sul ramo occidentale del Nilo a 25 km circa da Alessandria. La tradizione narra che questo santuario si trovava in prossimità del fiume proprio come accade alla chiesetta di Santa Passera, la quale, non a caso, è ubicata a poca distanza dal Tevere. Si è quindi ipotizzato che essa sia

    Chiesa di Santa Passera alla Magliana – Affreschi dell’abside.

    probabilmente stata individuata come sede delle reliquie proprio dai monaci che effettuarono la traslazione delle reliquie, al fine di ricordare l’antico santuario in terra d’Egitto che sorgeva nei pressi del Nilo. Curiosa, tra l’altro, anche l’origine del toponimo arabo Abukir nel quale è evidente una reminiscenza del nome Abbas Cyrus.
    Ma torniamo alla nostra Santa Passera: il piccolo luogo di culto, nell’VIII secolo, venne quindi ampliato e restaurato e dedicato alla memoria dei due martiri. Il nome di San Ciro sopravvisse nel tempo in relazione alla chiesa ma avrebbe conosciuto numerose volgarizzazioni che lo avrebbero mutato dal greco Abbas Cyrus, padre Ciro, in Abbaciro, Appaciro, Appàcero, Pàcero, Pàcera e infine Passera, da cui deriverebbe il nome odierno dell’edificio cultuale.
    Le reliquie martiriali dei due santi, in epoca tardomedievale, sarebbero state nuovamente traslate prima nel rione Trastevere, dove esisteva una chiesa dedicata a Sant’Abbaciro, e successivamente a Napoli, città da cui, a partire dal XVII secolo, si irradiò in tutto il Meridione il culto di San Ciro, veneratissimo santo patrono di Portici.

    Santa Passera – San Ciro d’Alessandria.

    La chiesa di Santa Passera, seppur posta in ubicazione suburbana, mantenne un’importanza rilevante come si può evincere dalle pitture che decorano l’unica aula absidata da cui è composto l’edificio. Tra queste ricordiamo l’affresco raffigurante i padri della chiesa orientale, realizzate con molta probabilità dagli stessi pittori bizantini, rifugiatisi a Roma durante il periodo dell’iconoclastia, che decorarono la chiesa di Santa Maria Antiqua nell’ VIII secolo.
    Anche il catino absidale presenta degli affreschi di pregevole fattura, purtroppo giunti fino ai nostri giorni in condizioni non totalmente perfette. Le pitture, divise in due livelli distinti, uno superiore e uno inferiore, risalgono a due diverse epoche storiche: quelli della parte superiore, probabilmente databili a un periodo medievale, rappresentano il Cristo trionfante tra le palme del martirio affiancato dai santi Pietro, Paolo, Giovanni Battista, a sinistra, e Giovanni Evangelista, a destra con una coppa in mano.
    Nella parte inferiore invece, le raffigurazioni sono databili al XIV secolo: la figura centrale è una rappresentazione della Vergine Oδηγήτρια – Odighítria, colei che indica la strada, tema ricorrente nell’iconografia bizantina. Alla sua destra l’Arcangelo Michele, protettore della Cristianità, e sull’estrema destra, un’altra bellissima raffigurazione di Cristo

    Santa Passera – Padri della Chiesa Orientale.

    Παντοκράτωρ – Pantocrator, in trono tra i santi titolari dell’edificio cultuale, Ciro, con la barba, e Giovanni, rappresentati come medici. Sull’estrema sinistra si notano altre due figure di santi non presenti nell’iconografia di ambiente orientale. Nella figura con il saio è riconoscibile San Francesco d’Assisi mentre alla sua sinistra è riconoscibile San Giacomo.
    Curiosa è poi la presenza di altre due raffigurazioni, di dimensioni più piccole, poste ai piedi dei due santi, che corrispondono probabilmente ai committenti dell’opera. È stato ipotizzato che nella figura femminile ai piedi del poverello di Assisi si possa identificare Jacopa de Settesoli, vedova del nobiluomo Graziano Frangipane, che, nel 1213 ospitò proprio San Francesco all’interno della Torre della Moletta al Circo Massimo mentre nella figura maschile, il di lei figlio Giacomo, protetto appunto dall’omonimo santo. Probabilmente la chiesa di Santa Passera doveva un tempo essere connessa alle proprietà dei Frangipane e la nobildonna Jacopa volle farsi effigiare assieme al figlio sotto la protezione dei santi a cui erano fortemente devoti.

    Santa Passera – Cristo Pantocratore tra i santi Ciro e Giovanni.

    Ma la chiesa di Santa Passera possiede la particolarità di aver conservato anche i due ambienti precedenti e sotterranei rispetto all’aula cultuale cristiana. A un livello più basso si trova infatti l’antica camera sepolcrale trasformata in oratorio e sotto di essa un ambiente pagano preesistente che presenta addirittura tracce di pitture. In epoca Medievale, si ritiene intorno all’anno 1000, nel livello di mezzo venne aperto un ingresso sopra il quale ancora oggi campeggia una bellissima epigrafe che ricorda l’avvenuta traslazione nella chiesa di Santa Passera dei martiri Ciro e Giovanni dalla città di Alessandria d’Egitto.

    Si ringrazia “Allontanarsi dalla linea gialla” per il testo e per alcune delle fotografie.

    Roma, 13 ottobre 2019

  4. Ottavia e Marcello: memorie di una famiglia imperiale

    Chiunque abbia deciso di visitare il Ghetto Ebraico di Roma non può non essere passato nel portico di Ottavia o nei pressi delle prime arcate del teatro di Marcello. I due monumenti contraddistinguono il Ghetto in

    Mercato del Pesce al Portico di Ottavia – Ettore Roesler Franz.

    maniera così caratteristica che le due realtà sembrano essere nate insieme, mentre la loro storia si svolge su archi di tempo diversi, che solo alla metà del Cinquecento si incrociano e si fondono.
    Fu, infatti, solo il 12 luglio del 1555 che il papa Paolo IV Carafa, con la bolla Cum nimis absurdum, revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani e ordinò l’istituzione del ghetto, chiamato anche “serraglio degli ebrei”, e identificò a questo scopo una regione nel rione Sant’Angelo, accanto al Teatro Marcello.
    Questa prima realtà era chiusa da alte mura dotate solo di due porte che venivano chiuse al tramonto e aperte all’alba. Gli Ebrei avevano diverse limitazioni della loro libertà e si dovette aspettare che sul soglio pontificio arrivasse Sisto V, Felice Peretti, che nel 1586 cercò di alleviare la pressione sulla comunità ebraica permettendo anche un ampliamento del ghetto, che arrivò, sotto il suo pontificato, a occupare una superficie di tre ettari.
    Un simile atteggiamento di maggiore disponibilità fu assunto anche da Paolo V Borghese, papa nella prima metà del 1600, il quale per sancire in qualche maniera il rispetto che la chiesa di Roma avrebbe portato alla comunità ebraica fece collocare nella piazza delle Scole una fontana nella quale il motivo araldico del drago alato dei Borghese si univa al candelabro con i sette bracci.

    Teatro di Marcello – Giovan Battista Piranesi.

    Uno spiraglio alle condizioni di estrema povertà della comunità ebraica si aprì una prima volta a seguito dell’occupazione francese di Roma del 1798 e la conseguente proclamazione della Prima Repubblica Romana, quando le porte del ghetto furono finalmente aperte e gli Ebrei poterono uscire. In piazza delle Cinque Scole per sancire questo momento fu eretto un “albero della libertà”, ma la libertà durò veramente poco visto che meno di due anni dopo, con la cacciata delle truppe francesi, le condizioni di vita tornarono a essere quelle di sempre. Di nuovo nel 1848 sembrò che le cose per la comunità ebraica potessero cambiare. Infatti Pio IX per un certo periodo del suo pontificato sembrò ispirarsi alle idee repubblicane, e questo per gli Ebrei si tradusse nel fatto che le mura del ghetto vennero abbattute. La libertà sembrò diventare ancora più concreta durante la Repubblica Romana del 1849, ma il ritorno del papa dopo la sconfitta della Repubblica spense di nuovo le speranze. Pio IX inasprito da quanto era accaduto, considerando la comunità ebraica in parte responsabile dell’esperienza della Repubblica, emanò leggi repressive

    Il Portico di Ottavia – Ludwig Passini..

    nei confronti della comunità che riguardarono anche la libertà con cui gli ebrei potevano muoversi all’interno della città, sebbene le mura del ghetto non esistessero più. Si dovrà attendere l’unità d’Italia e la proclamazione di Roma capitale per avere un’equiparazione reale tra gli Ebrei e gli altri cittadini romani. Ma anche questa sarà una parentesi che dal 1871 durerà in buona sostanza fino al 1938, quando Mussolini sceglierà di seguire Hitler sulla scelta discriminatoria nei confronti degli Ebrei. L’episodio certamente più grave della storia della comunità ebraica a Roma sarà quello che si compirà il 16 ottobre del 1943 durante l’occupazione nazista della città. In questa data i Tedeschi, al comando di Kappler, in poche ore, alle prime luci del mattino, rastrellarono e deportarono ad Aschwitz milleduecentocinquantanove Ebrei di tutte le età. Di questi ritornarono a Roma in sedici di cui quindici uomini e una sola donna Settimia Spizzichino, che da subito scelse di testimoniare l’orrore che aveva vissuto.
    A tutti questi tragici eventi della comunità ebraica romana, ma anche a quelli lieti hanno assistito muti e hanno fatto da scenario i due monumenti del portico d’Ottavia, quest’ultimo restituito da poco tempo all’ammirazione dei romani e dei visitatori da un accurato restauro, e il teatro di Marcello.

    Scorcio di Roma con Teatro di Marcello – Carlo Socrate.

    Il primo nasce come un grandissimo portico quadrato che Augusto fece ricostruire, tra il 33 e il 23 avanti Cristo sul portico di Quinto Cecilio Metello Macedonico dedicandolo alla amatissima sorella Ottavia. All’interno del portico sorgevano due templi, quello di Giunone Regina e di Giove Statore, mentre facevano parte del portico stesso la biblioteca, che raccoglieva testi latini e greci, dedicata alla memoria di Marcello, figlio di Ottavia e la Curia Octaviae.
    Nell’80 dopo Cristo il complesso subì danni in seguito a un incendio e fu probabilmente restaurato da Domiziano. Ancora nel 203 dopo Cristo, il portico e i templi furono ricostruiti e nuovamente dedicati da Settimio Severo e Caracalla, dopo le distruzioni dovute a un altro incendio. A seguito del terremoto del 441 dopo Cristo le colonne del propileo d’ingresso vennero sostituite dall’arcata tuttora esistente. Intorno al 770, a partire dal propileo d’ingresso, fu edificata la chiesa di San Paolo in summo circo, per volere di Teodoto, zio del papa Adriano I Colonna, come viene detto in un’iscrizione datata 780 e conservata all’interno della piccola chiesa. Nel XII la chiesa fu dedicata a Sant’Angelo, a seguito del miracolo dell’apparizione dell’Arcangelo Michele sul Gargano, e assunse anche l’attributo in foro piscium. La chiesa aveva però anche la denominazione di Sant’Angelo in piscibus e di Sant’Angelo iuxta templum Iovis.

    Il Portico d’Ottavia – Albert Bierstadt.

    Il toponimo in summo circo ricorda che il portico d’Ottavia delimitava il Circo Flaminio sul lato settentrionale. Il toponimo iuxta templum Iovis, ricorda la vicinanza con il tempio di Giove Statore, che era stato edificato nell’area tra il 143 e il 131 avanti Cristo per iniziativa di Quinto Cecilio Metello Macedonico. Il tempio fu il primo tempio di Roma edificato completamente in marmo. I toponimi in foro piscium, in piscibus e in pescheria indicano la vicinanza del mercato del pesce, che si svolgeva tra le rovine del portico e che era chiamato forum piscium o pescheria vecchia.
    La vita di questo mercato sarà lunghissima, arrivando fino ai primi anni del Novecento quando esso sarà trasferito all’interno dei Mercati Generali sulla Via Ostiense. Molti sono i documenti che ne descrivono la vita più antica, come la targa posta a destra del grande arco del portico che ricorda, in latino, che:“Debbono essere date ai Conservatori le teste di tutti i pesci che superano la lunghezza di questa lapide, fino alle prime pinne incluse”. I Conservatori erano alti funzionari del Campidoglio e le teste erano considerate la parte più prelibata del pesce per preparare la zuppa. Pene severe erano previste per i trasgressori di questa imposta e il privilegio sancito da questa lapide durò fino alla Repubblica del 1798.
    La vita più recente del mercato del pesce nel portico d’Ottavia, quella di fine di Ottocento, in particolar modo, è stata cantata da un artista del tutto particolare: Ettore Roesler Franz, che ha ritratto la vita del mercato e più in generale del Ghetto con attenzione e grande affetto attraverso i suoi acquerelli e le sue fotografie che restano una delle più importanti testimonianze della vita che si svolgeva in queste vie.
    Dalla chiesa di Sant’Angelo in pescheria Cola di Rienzo si mosse alla conquista del Campidoglio nel giorno della Pentecoste, il 20 maggio, del 1347.

    Cola di Rienzo – Federico Faruffini.

    Gli imponenti resti del teatro di Marcello mostrano l’affascinante stratificazione di successive edificazioni nelle varie epoche. Il teatro, iniziato da Cesare, fu compiuto da Augusto tra il 13 e l’11 avanti Cristo e dedicato alla memoria dell’amatissimo Marco Claudio Marcello, suo nipote e genero prediletto, quest’ultimo era infatti figlio della sorella Ottavia e marito di sua figlia Giulia, morto non ancora ventenne nel 23 avanti Cristo e per il quale Virgilio scrisse i suoi famosi versi di rimpianto: «[…] Ohi, ragazzo degno di pianto: se mai rompessi i tuoi fati, tu resterai Marcello. Gettate gigli a piene mani, che io sparga fiori purpurei e colmi l´anima del nipote almeno con questi doni e faccia un inutile regalo […]».L’imponente e severo monumento, che non di rado fu preso a modello dagli artisti del Rinascimento, era costituito da due ordini di quarantuno arcate ciascuno, coronati da un attico; la cavea, che si apriva ove attualmente è il giardino di Palazzo Orsini, poteva contenere circa quindicimila spettatori.
    Nell’era cristiana molti dei teatri romani caddero in disuso e questa sorte toccò anche al teatro Marcello, tanto che nel 370 parte del travertino della facciata che guardava verso il Tevere sembra che fu utilizzato per un restauro del ponte Cestio, mentre altro materiale di pertinenza della facciata si accumulava e veniva poi ricoperto dalle piene del Tevere stesso, dando origine a quello che oggi si chiama Monte Savello.

    Portico di Ottavia – Pittore anonimo dell’800.

    Nel Medioevo ciò che era ancora in piedi del teatro veniva trasformato in una fortezza che appartenne prima ai Pierleoni, poi ai Faffo e quindi ai Savelli che tra il 1523 e il 1527 vi fecero costruire da Baldassarre Peruzzi i due piani del palazzo, il quale acquistò così forma definitiva e nel 1712 passò agli Orsini.
    Nell’area compresa tra il teatro di Marcello e il portico di Ottavia svettano le tre colonne angolari del tempio di Apollo Sosiano, eretto nel 433 avanti Cristo e rifatto nel 179 quando lo stesso dio viene indicato con l’appellativo di Apollo Medicus. Il nome Sosiano deriva invece dal nome del console Gaio Sosio che lo ricostruì, nel 34 avanti Cristo, forse a causa di un suo trionfo. I lavori furono interrotti a causa tra Ottaviano e Antonio, per riprendere l’anno dopo quando Augusto si riconciliò con Sosio. Accanto a questo tempio infine sorgeva quello di Bellona, dea della guerra italica a cui fu dedicato il tempio nel 296 avanti Cristo. Il tempio si trovava fuori dal pomerium e in vicinanza delle mura, per questo motivo ospitò diverse riunioni del Senato quando a queste partecipavano personaggi stranieri, appartenenti ad ambascerie di altri popoli, o comandanti militari qualora essi fossero in armi ad esempio perchè dovevano partire per la guerra.

    Roma, 6 ottobre 2019