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  1. La casa dei Cavalieri di Malta al Foro di Augusto

    Il Foro di Augusto si chiude con un alto muraglione. Augusto lo fece costruire per separare in maniera definitiva l’area dei fori dalla Subura e proteggere così i Fori dagli incendi che di frequente scoppiavano nel

    La Casa dei Cavalieri di Malta al foro di Augsto.

    popoloso quartiere. Addossata al muraglione, e oggi praticamente distrutta, sorge una chiesa che alcuni monaci basiliani, nell’XI secolo, costruirono appoggiandola al podio del tempio di Marte Ultore e sull’esedra settentrionale del foro di Augusto. La chiesa fu dedicata a San Basilio.
    In questo punto è possibile riconoscere ciò che resta delle stratificazioni urbane compiutesi a partire dal periodo romano, fino alle profonde trasformazioni subite dall’area tra il 1924 e il 1927.
    Successivamente la chiesa dedicata a San Basilio, infatti, fu, nel 1230, incorporata in una proprietà dei Cavalieri dell’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme, al tempo detti Cavalieri di Rodi.
    Nel 1466 l’edificio subì importanti ristrutturazioni grazie al fatto che divenne priore dell’Ordine Marco Barbo, nipote di Paolo II. Probabilmente furono utilizzate le stesse maestranze che stavano lavorando a Palazzo Venezia. In questa occasione fu costruita la grande facciata su Piazza del Grillo dove si scorge ancora oggi un grande arco sovrastato da una finestra

    Sala del Balconcino – Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto. Si ringrazia “I viaggi di Raffaella” per la foto.

    a croce e una bellissima loggia a cinque arcate riccamente decorata ad affresco con vedute di paesaggi nelle quali spicca una rigogliosa natura. La decorazione della loggia è generalmente attribuita ad Andrea Mantegna o alla sua cerchia.
    Da questa loggia nella seconda metà del Quattrocento si affacciava il pontefice per benedire la folla.
    Dal lato che guarda verso il Foro di Augusto la Casa dei Cavalieri di Malta insiste sull’esedra del foro stesso e ne ricalca perciò l’andamento.
    Su questa facciata si può notare una finestra trilobata inserita in una cornice rinascimentale molto elegante.
    La casa fu organizzata intorno a due ambienti: il Salone d’Onore e la Sala della Loggetta. Entrambe le sale conservano il loro originario soffitto di legno.
    Il salone d’Onore è decorato ad affresco. Vi sono riprodotte delle carte geografiche legate a doppio filo con la storia dell’Ordine dei Cavalieri.
    L’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme nacque intorno alla prima metà dell’XI secolo quando, con le Crociate, venne a crearsi la necessità di difendere e assistere i Crociati e i pellegrini. In pratica i Cavalieri erano monaci militari che compivano anche l’assistenza ai malati e ai feriti. L’Ordine venne riconosciuto da papa Pasquale II nel 1113.
    Di fatto in origine i Cavalieri erano monaci benedettini di Cluny, provenienti da Amalfi, che costruirono l’Ospedale di San Giovanni Elemosiniere presso il Santo Sepolcro con il contributo e l’aiuto di mercanti e pellegrini che provenivano da Amalfi. Per questo motivo sulla loro tunica c’era la croce bianca della Repubblica di Amalfi.

    Panorama dalla Loggia della Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto. Si ringrazia “I viaggi di Raffaella” per la foto.

    L’origine dei Cavalieri è quindi solo in parte simile a quello dei Templari, che pure si costituiscono nello stesso periodo, ma con l’esclusiva attività di protezione armata dei pellegrini. Essi ebbero nel 1129 il riconoscimento grazie all’appoggio di Bernardo di Chiaravalle, e divennero così dei veri e propri monaci combattenti.
    A differenza dei Cavalieri, l’ordine templare si dedicò nel corso del tempo anche ad attività agricole, creando un grande sistema produttivo, e ad attività finanziarie, gestendo i beni dei pellegrini e arrivando a costituire il più avanzato e capillare sistema bancario dell’epoca.
    Il potere e la ricchezza dei Templari crebbero, quindi, nel tempo fino a suscitare l’interesse del re di Francia Filippo il Bello che ne ottenne il definitivo annientamento, grazie anche all’appoggio di papa Clemente V, nel 1312. L’annientamento comportò anche l’acquisizione di tutti i beni dei Templari da parte della corona di Francia.
    Ritornando ai Cavalieri il loro Ospedale a Gerusalemme, assisteva tutti, non solo i Cristiani. Questa vocazione all’assistenza e alla cura degli infermi è ancora oggi un tratto distintivo dei Cavalieri.
    Quando, nel 1187, Gerusalemme cadde nuovamente in mani islamiche i Cavalieri abbandonarono la città e si rifugiarono a Cipro, e di qui dopo due anni di lotte e tentativi conquistarono Rodi e vi si stabilirono. Fu così che l’Ordine assunse il nome di Cavalieri di Rodi.

    La loggia della Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto.

    Nel 1522 i Cavalieri perdettero l’isola di Rodi e furono costretti ad abbandonarla ricevendo in cambio dal papa la città di Viterbo, la quale godette perciò di una grande fioritura e venne anche risparmiata dalla calata dei Lanzichenecchi nel 1527.
    Nel 1530 per interessamento del papa Clemente VII e dell’imperatore Carlo V i Cavalieri ricevettero l’isola di Malta, e vi si stabilirono. Essi costituivano il baluardo più estremo di difesa nei confronti degli “infedeli”. Una volta ottenuta l’isola di Malta essi cambieranno il loro nome in Cavalieri di Malta.
    Nel 1571 i Cavalieri di Malta parteciparono alla Battaglia di Lepanto contro gli Ottomani, battaglia che fu vinta dalla Lega Santa che vedeva alleati tra gli altri il Regno di Spagna e il Vaticano.
    I Cavalieri rimasero proprietari dell’isola di Malta fino all’invasione delle truppe napoleoniche avvenuta nel 1798. Dopo questo evento essi si dispersero un po’ in tutto il mondo e quelli che tornarono a Roma andarono a occupare la sede del Priorato sull’Aventino che nel frattempo il papa aveva loro assegnato.
    Ritornando alla casa che oggi è di nuovo di loro proprietà, dal 1946, oltre il Salone d’Onore esiste la Sala della Loggetta, detta anche delle Cariatidi perché accoglie la ricostruzione di parte del fregio marmoreo del portico del Foro di Augusto. Un clipeo con una grande testa di Giove Ammone

    La ricostruzione del fregio del tempio dedicato a Giove Ammone. Si ringrazia “I viaggi di Raffaella” per la foto.

    circondato da cariatidi. In questa sale è inoltre collocato l’affresco della Crocifissione proveniente dalla chiesa delle Domenicane ormai demolita, attribuito a Sebastiano del Piombo. In questa stessa sala c’è un camino realizzato nel 1555 su cui è riportata una mappa dell’isola di Rodi come essa si presentava nel 1480, quando i Cavalieri erano ancora proprietari dell’isola.
    Dal Salone d’Onore, tramite una scala, si accede al piano superiore. Lungo le pareti della scala sono state rinvenute scritte e graffiti tra cui un ritratto del poeta Virgilio circondato sia da versi tratti dalle sue opere che dalle cantiche di Dante in cui Virgilio viene descritto.
    I Cavalieri di Malta restarono in questo edificio fino al 1566, quando il papa donò loro la chiesa di Santa Maria de Aventino, ovvero quella che oggi è la chiesa di Santa Maria del Priorato, in realtà chiesa dedicata a San Basilio che è appunto il protettore dell’Ordine dei Cavalieri.
    L’edificio nel foro venne quindi assegnato all’Istituto delle Neofite Domenicane, che aveva lo scopo di convertire al cristianesimo le fanciulle ebree.
    In questa occasione l’edificio subì una nuova trasformazione e un ampliamento eseguito su progetto di Battista Arrigoni da Caravaggio. Nell’ambito di queste trasformazioni le Domenicane chiusero la loggia affrescata per ricavarne delle stanzette. La chiesa venne dedicata alla

    Salone d’Onore – fregio – Casa dei Cavalieri di Malta nel Foro di Augusto.

    Santissima Annunziatina. I resti di questa chiesa sono ancora visibili lungo Via di Tor de’ Conti.
    Le monache inoltre ricavarono una lavanderia in un ambiente ipogeo da quello che, in epoca romana, era un cortile a cielo aperto su cui si affacciavano i locali a pian terreno di un’insula.
    Le Domenicane restarono in questo edificio fino al 1930, quando il convento venne demolito a seguito della costruzione di Via dell’Impero.
    A questo punto l’edificio passò prima in proprietà del comune di Roma che eseguì dei restauri dopo il 1940.
    Nel 1946 l’edificio tornò di proprietà dei Cavalieri, ormai divenuti di Malta. Nel locale che era stato lavanderia i Cavalieri realizzarono la Cappella Palatina, la cui pianta è organizzata in tre navate e che ospita, tra l’altro, alcuni affreschi portati qui dall’architetto Fiorini per salvarli dalle demolizioni dell’epoca mussoliniana.

    Roma, 23 agosto 2019

  2. Sulle tracce della prima guida turistica di Roma: Mirabilia urbis Romae (XII secolo)

    Antiquae urbis Romae cum regionibus simulachrum – Rome – Valerius Dorichus Brixiensis – 1532.

    Mirabilia Urbis Romae è il titolo di un trattatello scritto in latino. La redazione più antica del testo è quella contenuta nel Liber Polypticus, un libro di carattere amministrativo pontificale, e risale al 1140 – 1143. Il trattato è anonimo ma l’autore del Mirabilia doveva probabilmente essere una persona appartenente all’ambiente ecclesiastico, o l’autore stesso del Liber Polypticus.
    Così come oggi il turista che si rechi a Roma arriva con un elenco di luoghi da visitare, magari ricavato dopo una più o meno accurata ricerca in rete, così accadeva anche prima del XII secolo, quando elenchi di cosa vedere a Roma erano stati già tramandati, ed erano soprattutto a uso dei pellegrini. La novità introdotta dai Mirabilia è che l’elenco dei luoghi in esso contenuto è molto più articolato, arricchito dalle considerazioni dell’autore, dalla citazione di fonti letterarie e da informazioni, commenti e considerazioni desunte dall’immaginario popolare del tempo. Le informazioni e le tradizioni possono essere relative, ad esempio, all’origine di una statua, di un tempio o di un colle.
    Nei Mirabilia sono, poi, contenute informazioni non legate al solo mondo cristiano dei pellegrinaggi, e questa costituisce una delle principali differenze con il così detto “Itinerario di Eisielden”.
    L’itinerario proposto nel

    Pianta di Roma in epoca imperiale.

    Mirabilia parte dal Vaticano per arrivare al Campo Marzio, quindi sale al Campidoglio e scende al Foro Romano. Dal Palatino si scende al Colosseo e quindi si sale all’Aventino per passare al Celio, al Laterano, al Viminale e al Quirinale.
    L’ultima visita è a Trastevere.
    I Mirabilia ebbero un grande successo come ci testimonia l’esistenza di ben 145 manoscritti che ce li tramandano, nelle numerose traduzioni dal latino in volgare, tedesco, olandese e inglese. Dal XV secolo i Mirabilia verranno stampati più volte. Essi possono essere, infatti, considerati i più antichi incunaboli stampati dalle tipografie tedesche a Roma. Nel corso delle varie stampe manterranno il titolo originale nonostante subiranno continui ammodernamenti e modificazioni dei contenuti.
    Nel XVI secolo, con la nascita dell’interesse per l’antichità favorito dalle scoperte archeologiche, la parte fantastica venne eliminata e i Mirabilia divennero una vera e propria guida alle rovine della città. Inoltre la parte aggiunta nel Quattrocento, verrà ampliata. Utilizzando i Mirabilia, quindi, il forestiero riusciva a fare il giro della città in tre giorni guidato da un cicerone. Essi saranno utilizzati fino al Barocco.

    Veduta di Roma – “Il Dittamondo” – Fazio degli Uberti – Milano – 1447


    Secondo alcuni autori, comunque, l’elenco dei monumenti era già presente nelle edizioni più antiche. Nei primi dieci capitoli vengono descritti i vari generi di monumenti: i colli, gli archi, le mura, le terme, i palatia, tra i palatia viene citato anche quello Romulianum e in occasione della descrizione di questo palatium viene raccontata la leggenda, tramandata da scrittori orientali a partire dal V – VI secolo, secondo la quale la statua d’oro eretta in onore di Romolo crollò quando partorì “una vergine”.
    I Mirabilia contengono ancora la descrizione dei teatri nei quali vengono compresi anche i circhi, i luoghi citati nelle passio dei santi, le colonne, i cimiteri, e molto altro. Nei capitoli 11, 12 e 13 sono riportate, ad esempio: la leggenda relativa alla visione di Ottaviano e la fondazione della chiesa di Santa Maria all’Ara Coeli sul Campidoglio, la storia delle statue dei Dioscuri sul Quirinale, l’origine del “cavallo di Costantino”, oggi noto come Marco Aurelio, la Salvacio Romae con la fondazione del Pantheon e quella di San Pietro in Vincoli. Nel capitolo 8 sono elencati i luoghi delle passioni dei santi, mentre nel capitolo 13 si parla dei funzionari imperiali, citati con i relativi nomi bizantini.
    Nel capitolo 12 si racconta, quindi, della leggenda della visione di Ottaviano collegata alla fondazione della chiesa di Santa Maria in Ara Coeli. La leggenda è tratta dal Chronichon di Giovanni Malala. In essa si dice che Ottaviano chiese alla Sibilla tiburtina se poteva essere adorato come un dio, secondo la volontà del Senato. La Sibilla, dopo tre giorni rispose: «dal cielo verrà un re che regnerà nei secoli, avrà sembianze umane e giudicherà il mondo». Dopo questo responso ad Augusto apparve, nella sua camera dall’alto, una donna su un altare con in braccio un bambino, dove ora c’è la chiesa di Santa Maria in Ara Coeli, che significa appunto “altare del cielo”, e fu per questo motivo che in quel punto venne eretta la chiesa.
    La versione della leggenda contenuta nei Mirabilia è la terza in ordine di tempo, seguita poi da quella di Jacopo da Varazze. Non tutti gli autori sono d’accordo sull’interpretazione della leggenda. Probabilmente sul Campidoglio esisteva già un altare dedicato a qualche dea che, successivamente, viene dedicato a Maria. Le varie versioni della leggenda avrebbero il ruolo di mostrare la missione cristiana dell’Impero Romano e Ottaviano rappresenterebbe perciò l’autorità civile pronta ad accogliere la venuta di Cristo e l’avvento del Cristianesimo.

    Il Marco Aurelio – Roma.

    Un’altra leggenda riguarda l’origine di quello che, così riferisce l’autore, era chiamato comunemente “il cavallo di Costantino”, ovvero quella che sarà poi interpretata come la statua equestre di Marco Aurelio. Il gruppo scultoreo, datato 176 dopo Cristo, aveva una collocazione a tutt’oggi sconosciuta. Nell’VIII secolo fu spostato vicino alla basilica di San Giovanni in Laterano, costruita per volontà dell’imperatore Costantino.
    Nella leggenda si spiega che il cavallo è di un armigero che, dopo aver liberato Roma da un re orientale, chiese una ricompensa in denaro e di essere raffigurato in una statua equestre: sulla testa del cavallo sarebbe stata posta una civetta e legato sotto la pancia del cavallo ci sarebbe stato il re sconfitto. Perché poi l’armigero venga nel tempo identificato come Costantino è una questione controversa, molti autori ritengono che sia solo il consolidarsi di una tradizione popolare che era nata proprio a seguito della simpatia che Costantino aveva in qualche modo riscosso presso il popolo, un’altra ipotesi è che sia stata la vicinanza della statua alla basilica di San Giovanni, fatta costruire da questo imperatore, a determinarne il nome indicato dalla tradizione.
    La versione della storia dei Dioscuri che oggi campeggiano nella Piazza del Quirinale riportata nei Mirabilia, indica che dell’enorme gruppo scultoreo faceva parte anche una terza statua. Quest’ultima rappresentava una

    Dioscuri – Piazza del Quirinale – Roma.

    donna, circondata da serpi e recante una conca in mano, identificata dagli studiosi come Igea. Non si sa se questa terza figura sia davvero esistita. Se ciò fosse vero al momento essa è dispersa. Anche in questa guida viene riportata la leggenda che le due statue maschili fossero i ritratti di due filosofi indicati con il nome di Fidia e Prassitele venuti a Roma per dare consigli a Tiberio, così come è riportato nel così detto “Itinerario di Eisielden”.
    L’autore dei Mirabilia Urbis Romae ha come scopo, lo dice nell’ultimo capitolo, quello di tramandare ai posteri il ricordo le bellezze di Roma. Ma nel fare questo ci riporta quindi le notizie dell’immaginario medievale che mescola le varie storie e leggende per crearne di nuove. Ci informa ad esempio che nel X secolo il Mausoleo di Augusto era tanto caduto in degrado, da assumere l’aspetto di un colle.
    Oltre all’ammirazione dei resti dell’antica civiltà romana i Mirabilia dedicano attenzione agli aspetti del mondo cristiano. Il capitolo 8 è dedicato solo ai luoghi di Roma connessi con le “passio” dei Santi, e, ad esempio, vi si racconta dell’apparizione di Cristo a Pietro sulla via Appia. Pietro fuggiva dalla città per evitare il martirio e incontrato Cristo gli chiese: “Domine, quo vadis?”, ovvero “Signore, dove vai?” e Cristo gli rispose: “Eo Romam, iterum crucifigi”, “Vado a Roma, per farmi crucifiggere nuovamente”. A queste parole Pietro tornò in città e scelse di andare incontro al proprio destino. Nel luogo in cui la tradizione pone l’incontro tra Cristo e Pietro, nel IX secolo venne eretta una cappella, che oggi è la chiesa del Domine quo vadis.
    Con lo sviluppo della pratica del pellegrinaggio l’opera fu utilizzata, in una forma ridotta, proprio come una guida turistica.
    Ancora oggi la lettura di questo trattatello può essere utile, e divertente, non solo per ricostruire le architetture romane antiche, ma anche per conoscere le architetture mentali, i miti e le leggende, che hanno abitato e sono stati abitati in questa città.

    Roma, 18 agosto 2019

  3. La Casina di Bessarione, un cardinale tra Oriente e Occidente

    Casina del Cardinal Bessarione – Disegno dal Progetto di Restauro del Pernier – 1929.

    La villa sta poco discosta dalla chiesa di San Cesareo, lungo il tratto urbano dell’Appia Antica – tratto che oggi prende il nome di via di Porta San Sebastiano –. È conosciuta come la Casina del cardinale Bessarione.
    Intanto, chi era costui? Teologo e umanista, nacque a Trebisonda nel 1403. Morì a Ravenna nel 1472. Monaco basiliano, fu al servizio di Giovanni VIII di Costantinopoli e di Teodoro II Porfirogenito. Arcivescovo di Nicea, partecipò al concilio di Ferrara – Firenze per l’unione della Chiesa greca con quella latina, in qualità di oratore principale dei Greci; nell’esito felice, anche se non duraturo del concilio, ebbe gran parte. Creato da Eugenio IV cardinale dei Santi Apostoli – basilica che ospita la sua straordinaria cappella funebre – nel 1439, fu chiamato in Curia dal papa e nel 1449 trasferito alla sede vescovile di Sabina e poco dopo a quella di Tuscolo. Legato pontificio a Bologna, fu candidato all’elezione papale nel conclave del 1455. Nel 1463 divenne vescovo di Negroponte e poi patriarca di Costantinopoli. Contribuì alla diffusione in Italia del greco e specialmente della filosofia platonica. Tradusse in latino la “Metafisica” di Platone.
    Era, dunque, un sublime uomo di cultura.

    Cardinal Bessarione – Ritratto – Monumento funebre in Santi Apostoli Roma.

    Così scrisse in una lettera: “Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri saremmo tutti dei bruti.”
    Da uno saggio di Fabio Prosperi, raffinatissimo studioso dell’Età Medievale, prendiamo le mosse per descriverne i tratti: «Forse è proprio questo incredibile stralcio di lettera la chiave per entrare in sintonia con le corde dell’animo di Bessarione. L’immagine delle casse dei suoi libri, donati a Venezia, che vengono trasportate a bordo di barche che scivolano sulla laguna verso la città del leone di San Marco, evoca l’arca che pone in salvo questo inestimabile retaggio che passa di mano dall’Oriente bizantino all’Occidente umanista. Proprio quei libri, scampati al diluvio ottomano, andranno a costituire il fondo primo della Biblioteca Marciana».
    Bessarione non fu solo questo, non fu solo uomo di lettere. Lo vediamo impegnato a fianco di Giovanni Paleologo al concilio di Ferrara nel tentativo di ricucire lo Scisma di Michele Cerulario, tentativo nel quale si prodigò come teologo nel dibattere la questione del Filioque e come oratore sapiente nonostante la giovane età: a trent’anni fu lui a pronunciare il discorso di apertura. Cardinale di Santa Romana Chiesa, alto prelato del clero orientale passò al cattolicesimo occidentale probabilmente deluso

    Affresco – Casina del Cardinal Bessarione – Roma.

    dalla insensata resistenza del clero orientale che ancora una volta vanificò tanto lavoro di ricucitura tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, mantenne comunque l’abito di monaco basiliano ed ebbe la sua accademia proprio in Santi Apostoli, al tempo di Pomponio Leto e di Nicolò da Cusa.
    E ora la casina romana a lui attribuita: pur compresa dalle Mura Aureliane, ha tutte le caratteristiche di una villa rustica del Rinascimento. E il giardino ne è la dimostrazione: con l’ausilio di siepi di bosso o di erbette odorifere nel Rinascimento si realizzarono così dei giardini le cui aiuole, disegnate in precise forme simboliche, facevano da contorno al passeggiare e al meditare sereno del padrone di casa. In tal modo il legame con il passato era reale e ideale allo stesso tempo, perché da un lato si recuperava l’arte, cioè il dare forma architettonica alla natura, e dall’altro si ricreavano a livello intellettuale gli antichi otia letterari.
    Sul retro della casina, ci si ritrova nella zona riservata, vero hortus conclusus medievale, che ricorda le fasi anteriori dell’edificio. Durante il Medioevo la zona dove sorge la casina era caduta in rovina e le aree ai lati dei tratti urbani delle vie Appia e Latina erano divenute sede di vigne e di orti spettanti a chiese vicine, mentre la via di era trasformata in una miniera di marmi antichi.

    Casina del Cardinal Bessarione – Affresco.

    Nella parte medievale dell’edificio si riconosce l’ospedale annesso alla chiesa di San Cesareo. Dopo il 1439 la casina divenne sede episcopale estiva. Il suo legame col cardinale Bessarione sarebbe provato da alcuni documenti che attestano la proprietà da parte del cardinale di una vigna situata tra i possedimenti della chiesa di San Sisto Vecchio e la chiesa di San Cesareo. Ma nulla di più, dal momento che nei fregi che decorano le stanze compare sempre lo stemma del cardinale Battista Zeno, vescovo di Tusculum dopo il Bessarione.
    Ad ogni modo la casina mostra in anticipo alcune caratteristiche proprie delle ville rinascimentali, ovvero la tendenza a trasformare vecchie dimore suburbane in ville rustiche e a condurre un sapiente intervento architettonico che vada a fondersi con lo spazio naturale circostante; quindi può essere definita come un prototipo di residenza extraurbana all’interno del recinto difensivo romano.
    Nella fase post-rinascimentale la storia della casina è a tratti nebulosa. In una pianta del 1551 la zona corrispondente alla Villa è segnalata come vinea del Cardinale Marcello Crescenzi, il cui stemma di famiglia è in effetti affrescato nella loggia della casina. Nel 1600 Clemente VIII concesse i due edifici contigui, casa e chiesa, al Collegio Clementino, da lui fondato nel 1594 e affidato ai Padri Somaschi, e la villa divenne luogo di incontri conviviali legati all’attività del Collegio. Soppresso il Collegio Clementino nel 1870, la casina fu affidata al Convitto Nazionale.

    Casina del Cardinal Bessarione – 1949. Si ringrazia Roma Sparita

    Ben presto tuttavia la villa cadde in abbandono e sul finire del secolo venne trasformata in osteria di campagna tramite una serie di interventi che la modificarono radicalmente: vennero chiusi gli archi della loggia; i soffitti e le pareti affrescate furono imbiancate; le sale, suddivise in più vani con dei tramezzi, vennero utilizzate come camere da letto o come depositi di attrezzi e prodotti agricoli.
    Solo negli anni del Governatorato la casina tornò alla sua antica dignità. Espropriata nel 1926, essa venne fatta oggetto di ingenti restauri affidati all’Ufficio Antichità e Belle Arti.
    Tornando al cardinale Bessarione, ci possiamo porre la domanda del perché abbia scelto di risiedere proprio in questa zona.
    Pensiamo un attimo al fatto che la casina è posta non su una strada qualsiasi, bensì lungo l’Appia, la regina viarum, la strada che in antico condusse i Romani alla conquista non solo dell’Italia meridionale: il porto di Brindisi, ove l’Appia concludeva il suo lungo percorso, era la testa di ponte verso il Vicino Oriente. Ebbene, piace credere che nella casina egli vide non soltanto un luogo salubre e ameno, ma anche una parte di Roma in qualche modo più vicina alla Grecia; un legame ideale con la patria che non poté più rivedere.

    Roma, 18 giugno 2019

  4. Santa Maria in Cosmedin, la Schola graeca e i cattolici greci di rito bizantino

    La Bocca della Verità – Santa Maria in Cosmedin.

    Un’antica e grossolana scultura – probabilmente un chiusino che convogliava le acque piovane alla cloaca – è assurto, col favore della fantasia popolare, a toponimo di un ambiente che ha ben altri titoli di gloria da vantare. Vale a dire il centro della zona mercantile dell’antica Roma fra il porto fluviale dei tempi più lontani e l’Emporio della fine della Repubblica e dei primi tempi dell’Impero.
    Qui si ergono templi importanti e pubblici uffici: il luogo che fu del Foro Olitorio, mercato delle verdure, e il Foro Boario, mercato del bestiame. Banchieri e cambiavalute svolgevano la loro attività nel Velabro, dove ancora si può ammirare l’Arco degli Argentari.
    Caduto l’impero ed entrata l’Urbe nella fase di influenza bizantina, fu questo il centro della colonia greca, con una fiorente cultura che si manifestò soprattutto nelle arti decorative: la cosiddetta Schola Graeca. Non solo: fiorirono una serie di diaconie, veri e propri centri di assistenza ai poveri, sorte sull’esempio di quelle della Chiesa in oriente. Col passare del tempo, accanto o al di sopra delle diaconie, furono innalzate chiese intitolate a santi orientali: San Teodoro, San Giorgio al Velabro, San Nicola in Carcere, Sant’Anastasia, e Santa Maria in Cosmedin, basilica importantissima, conosciuta purtroppo per la cosiddetta Bocca della Verità, vale a dire il chiusino di cui sopra. Migliaia di turisti ogni giorno si sottopongono a file chilometriche per scattare foto davanti alla

    Navata – Santa Maria in Cosmedin.

    minacciosa Bocca che si trova nel portico. Quasi nessuno entra nella bellissima chiesa officiata ancora oggi col rito cattolico greco-melchita a testimonianza delle antiche origini orientali dell’area.
    Chi sono i Melkiti? Il termine deriva dal siriaco malka, ovvero re, sovrano. Con questo termine si intende definire il complesso dei cristiani dei patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, i quali accettarono il concilio di Calcedonia e, di conseguenza, le direttive ufficiali della corte di Costantinopoli. I Melkiti seppero sempre garantire la sopravvivenza di Chiese proprie, seguirono i loro riti tradizionali fino al XII-XIII secolo, quando, per effetto del plurisecolare vincolo con la chiesa bizantina, finirono per mutarne il rito: come lingua liturgica mantennero, comunque, l’arabo ormai corrente nella popolazione. A differenza della gerarchia rimasta nel corso del tempo prevalentemente ellenofona. Ad Alessandria e a Gerusalemme ancora oggi i patriarchi sono greci. Nel corso dei secoli, una parte dei Melkiti si mosse verso l’unione con la chiesa cattolica. Un movimento che mosse i primi passi solo a partire dal 1856. Verso il 1880 la presenza cattolica si registrava ormai nella campagna tracia. Fino al 1895, quando si riuscì a istituire a Costantinopoli un seminario e due parrocchie greco-cattoliche. Nel 1911 papa Pio X creò in Turchia un esarcato apostolico per i cattolici di rito bizantino. Nel 1923, Roma provvide a spostare ad Atene l’esarcato apostolico.
    Attualmente i cattolici greci di rito bizantino si riducono ad un’esigua minoranza; vivono per lo più concentrati ad Atene e una piccola parrocchia cattolica sopravvive ad Instanbul.

    Santa Maria in Cosmedin.

    Roma ha Santa Maria in Cosmedin, col suo campanile snello a sette piani di bifore e di trifore che si staglia leggero ed elegante, decorato di maioliche a più colori. È fra i più belli dell’epoca romanica; risale al XII secolo ed è alto 34,20 metri e conserva una campana del 1289.
    L’interno si presenta nella forma che assunse nel suo momento di maggior splendore nel XII secolo; infine col suo nome rievoca, come s’è già scritto, un particolare periodo della storia romana, svoltosi sotto un prevalente influsso bizantino, con una consistente colonia orientale che gravitava in questa zona. Questa fu soprattutto importante nei secoli tra il VII e il IX, prima per la decisa prevalenza politica di Bisanzio che aveva i suoi governatori insediati nei palazzi del Palatino, e poi per l’afflusso dei profughi sfuggiti alle persecuzioni iconoclaste. La sponda tiberina corrispondente si chiamò ripa graeca; intitolazioni a santi greci ebbero tutte le chiese dei dintorni e infine questa chiesa derivò il suo nome probabilmente dal celebratissimo monastero di Costantinopoli, detto il cosmidìon.

    Pavimento – Santa Maria in Cosmedin.

    Santa Maria in Cosmedin ebbe origine da una diaconia, organismo a carattere assistenziale, con la quale la Chiesa, a partire dai secoli VI e VII sostituì gradualmente l’autorità civile sempre più assente. Nel VI secolo, la diaconia si insediò nei locali antichi, che fondatamente si ritiene abbiano ospitato la statio annona, cioè la sovraintendenza dei rifornimenti di viveri alla città, installata nei pressi della zona portuale, i Navalia militari dell’epoca repubblicana, l’Emporium commerciale dell’epoca imperiale. Iscrizioni di carattere annonario ne forniscono la giustificata convinzione.
    Questo ambiente che forse si articolava in varie costruzioni, attorno all’Ara Maxima di Ercole, comprendeva una grande loggia, probabilmente per i mercanti, che aveva un andamento trasversale alla chiesa attuale. In un primo momento la chiesa si allogò nell’interno della loggia, utilizzandone trasversalmente solo una parte; quindi nel secolo VIII, papa Adriano I la fece ampliare fino alle proporzioni odierna e con foggia basilicale. Ai primi del XII secolo, all’epoca di Callisto II, un prelato Alfano continuò l’opera di riordinamento che era stata iniziata alla fine dell’XI da papa Gelasio II. La chiesa si presentò con le caratteristiche che vi sono state ripristinate da un restauro del 1893.
    All’esterno, un protiro e il portico costruiti da Adriano I e sopraelevati da papa Gelasio. Nel portico, sovrastato da un locale a monofore, si trovano interessanti testimonianze antiche, dalla Bocca della Verità, il famoso chiusino di fogna, all’ornato portale di Giovanni da Venezia del secolo IX, al sepolcro del citato prelato Alfano, che è il prototipo dei successivi monumenti funebri del due-trecento.
    L’interno a tre navate, le cui absidi hanno la caratteristica di terminare con bifore, ha al centro, tra due file di colonne e pilastri, una grande aula fino al soffitto a semplici lacunari dipinti. Ai lati della porta principale, come nella sagrestia, si trovano le grandi colonne corinzie della loggia del IV secolo, su cui si inserì la iniziale diaconia. Il pavimento è in opus sectile dei marmorari pre-cosmateschi degli inizi del XII secolo.

    Cripta – Santa Maria in Cosmedin.

    Lungo le pareti e sull’arcone trionfale si vedono avanzi della decorazione pittorica a strati sovrapposti dei secoli XI e XII. La pergula o iconostasi, con gli amboni e il candelabro, è ricostruita secondo i suggerimenti forniti dagli avanzi antichi. Sul presbiterio è un ciborio gotico del XIII secolo, opera di Deodato, della famiglia dei Cosmati, con archi trilobati e lucenti smalti di mosaico. Anche il pavimento è cosmatesco. Nel fondo, è la cattedra episcopale.
    Si accede alla cripta, ricavata dal podio di un tempio antico: ha foggia di piccola basilica con due file di colonnine. È del secolo VIII.
    La sagrestia conserva un bel mosaico dell’anno 705, proveniente da un distrutto oratorio che esisteva presso San Pietro: è un frammento di una raffigurazione dell’Epifania.
    Da notare anche la seicentesca Cappella del Coto progettata da Carlo Maratta che eseguì anche le quattro statue delle “Virtù”. Vi è venerata una immagine del secolo XIII della Teotokos, o Madre di Dio, simile a quella di Santa Maria del Popolo.

    Roma, 14 aprile 2019.